Novissima. Albo di arti e lettere

“Novissima. Albo di arti e lettere” si presentava come la più originale pubblicazione italiana dedicata all’arte, alla letteratura e alla decorazione del libro. Ideata e diretta da Edoardo De Fonseca, figura di rilievo nel panorama storico-artistico italiano di inizio Novecento, è stata pubblicata per la prima volta nel 1901 a Milano e dal 1903 a Roma.

Stampata in duemila copie destinate anche al mercato estero, la rivista annovera tra le sue collaborazioni nomi illustri come Aleardo Terzi, Alfredo Baruffi, Augusto Majani, Mariano Dudovich e Luigi Bompard, artisti come Giulio Aristide Sartorio, Antonio Rizzi e Duilio Cambellotti e letterati tra i quali Luigi Pirandello, Giovanni Pascoli, Edmondo De Amicis e Giuseppe Giacosa.

Si tratta sicuramente di un’espressione insostituibile del gusto italiano di inizio Novecento ed è la pubblicazione più raffinata e con la veste più ricca tra quelle che si affacciavano allora in Italia; si distingue tra le altre per l’impegno grafico e letterario e il suo modo di presentarsi dovette esercitare una notevole influenza sul pubblico, tanto che fu l’unica rivista ad esser stata premiata all’Esposizione Internazionale d’arte decorativa moderna tenutasi a Torino nel 1902, dove ricevette il riconoscimento della medaglia d’argento e il Diploma d’onore (De Guttry, Maino, 2007), mentre alla successiva Esposizione internazionale del Sempione a Milano (1906) fu insignita della medaglia d’oro.

Il progetto risale ai primi mesi del 1900, quando De Fonseca ebbe l’idea di fondare la “Società editrice di Novissima”, raccogliendo intorno a sé un gruppo formato dagli artisti Aleardo Terzi, Antonio Rizzi, Riccardo Galli, Giorgio Kienerk, Alberto Micheli, Luigi Brunelli, Angelo Sodini e Ulisse Stacchini. Per sottolineare il carattere innovativo dell’opera venne scelto come titolo “Novissima”, ossia il plurale neutro latino di “nuove cose”, che, per via del latinismo scelto al posto del superlativo assoluto italiano, collocò subito la rivista a un livello culturale alto. Al fine di creare da subito un ampio consenso di pubblico, De Fonseca si impegnò nel 1900 a cercare tra le risorse intellettuali nazionali; fece quindi un viaggio attraverso l’Italia raccogliendo intorno a sé l’élite degli artisti e intellettuali di ogni regione che poi compariranno tra le pagine di “Novissima”. Fu un giro di propaganda che aveva lo scopo di raccogliere le adesioni degli artisti che potevano lavorare alla veste grafica, ma anche richiedere la collaborazione dei letterati italiani al fine di garantire alla rivista un successo e una diffusione sicuri.

Lo scopo della pubblicazione viene esplicitamente dichiarato dal direttore nell’editoriale del 1910, che ripercorre i propri passi dal viaggio fatto per tutta l’Italia alle difficoltà incontrate nel portare a termine la pubblicazione. L’idea era quella di rispondere a un bisogno di novità generalmente sentito in quegli anni, al quale potesse corrispondere una nuova rivista che rispecchiasse il meglio dell’arte e della letteratura nazionale ispirandosi a quell’arte nuova che all’epoca si diffondeva in Europa, grazie a riviste come “Jugend” e “Simplicissimus”.

“Novissima” risulta ben curata in ogni aspetto, a partire dalla scelta dei collaboratori ma anche nei contenuti e soprattutto nella forma: dal 1901 escono dieci volumi in formato oblungo che misurano 25.5 cm per 21 cm e si presentano come libri di lusso finemente rilegati e ricercatissimi.

Le eleganti copertine, legate ai caratteri del Liberty, vogliono essere espressione dei diversi stili degli autori. Nei primi numeri della rivista manca l’indice, ma è presente un elenco dei collaboratori diviso per artisti, scrittori e compositori.

Il numero di pagine oscilla tra l’ottantina e il centinaio e, oltre agli scritti letterari, si trovano molte tavole grafiche, vero fiore all’occhiello della rivista, spesso stampate solo sul fronte, cosa che permetteva ai lettori di staccarle e incorniciarle.

La cura nella realizzazione di ogni volume è scrupolosa e ben visibile nella qualità della rilegatura; le copertine rigide e gran parte delle illustrazioni sono a colori, il dorso è in tela e spesso presenta alcuni caratteri in oro; un dettaglio che aiuta a sottolineare la raffinatezza della pubblicazione è l’utilizzo di diversi tipi di carta, le tavole grafiche infatti sono stampate su carte di diverso colore e spessore al fine di dare un maggiore risalto ai colori delle illustrazioni.

Sono presenti rubriche che trattano temi differenti come la moda, il teatro e lo sport ma anche resoconti di eventi mondani italiani e internazionali, come, ad esempio, l’Esposizione Universale di Parigi; non mancano poi articoli di critica d’arte, poesie, novelle e racconti, estratti di libri in uscita e riflessioni sull’anno passato. Ogni articolo è completato da una grafica che ne riprende i temi, fattore questo che segna una continuità tra la parte scritta e le tavole grafiche. Queste ultime possono essere sciolte, senza essere collegate da uno specifico tema, oppure possono svilupparsi seguendo un filo conduttore; questo dipende molto dalle varie annate, ad esempio nell’album del 1903 l’attenzione del lettore viene subito catturata da un’ampia sezione intitolata Impressioni pittoriche da composizioni musicali celebri, titolo che ben descrive la natura delle illustrazioni che vengono presentate. L’importanza di queste tavole è messa ulteriormente in risalto dall’utilizzo di velinec he separano tra loro le pagine e indicano il nome dell’artista e l’opera a cui fa riferimento l’illustrazione.

I modelli grafici ai quali “Novissima” fa riferimento sono da ricercarsi all’interno di un clima di profondo rinnovamento culturale e artistico che si diffonde nell’Europa fin de siècle anche grazie alle riviste d’arte. Tra queste la più importante, sia per le innovazioni grafiche che introduce, sia per i grandi nomi che firmano le sue pagine, è sicuramente “Ver Sacrum”, la rivista della Secessione viennese. Come “Ver Sacrum” era il luogo del confronto e della diffusione dei modelli della modernità, così “Novissima” si propone quale cenacolo di artisti e scrittori che collaborano e diffondono il nuovo gusto italiano.

L’attenzione che la rivista mostra per l’arte straniera si deve al lavoro di Vittorio Pica, lettore appassionato e critico d’arte, che vede la grafica come una sorta di sviluppo naturale della sua formazione artistico-letteraria.

Oltre a trattare temi di interesse culturale che vanno dall’arte alla letteratura, in un decennio “Novissima” dà particolare risalto alla figura della donna sia nelle illustrazioni, dove è spesso protagonista, sia negli scritti. A proposito di questo tema, Guido Menasci in Sorriso Novo, articolo uscito nell’album del 1909, definisce il nuovo concetto di bellezza femminile: una figura che sta a metà tra il fascino acerbo della giovinezza e l’eleganza della donna italiana, signora della casa.

Questo aspetto è significativo, in primo luogo, perché rivela il fatto che la rivista propone al contempo l’immagine di una donna reale e di una donna più idealizzata e, in secondo luogo, fa emergere con chiarezza un indizio per individuare il pubblico al quale la rivista si rivolge: sicuramente il ceto sociale di riferimento è medio-alto e coinvolge non solo gli appassionati d’arte e letteratura ma anche le donne, che con il nuovo secolo progressivamente abbandonano il ruolo di “angelo del focolare” e si fanno protagoniste, reclamando i propri diritti e la propria autonomia. È dunque una pubblicazione che da una parte esalta la bellezza della donna moderna, ma dall’altra si rivolge alle donne stesse, per educarne il gusto. La figura della donna sembra essere una delle tematiche preferite dagli illustratori di “Novissima” e più in generale dei disegnatori italiani ed europei tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.

In “Novissima” assistiamo a una presentazione dell’immagine femminile che a prima vista può sembrare contraddittoria, gli artisti da una parte propongono una figura femminile che rispecchia la donna borghese dell’epoca, che era anche la lettrice-tipo della rivista, dall’altra ne mostrano un’immagine più fresca, in linea con gli elementi naturali. Nelle illustrazioni di questo periodo, infatti, la figura femminile appare spesso affiancata da motivi naturali come l’acqua, il paesaggio o cornici floreali che ne esaltano la sinuosità, elementi in netto contrasto con quella che è l’immagine della donna borghese, che per la moda dell’epoca metteva in risalto una silhouette artificiale.

Un altro degli elementi che in “Novissima” assume una grande importanza è la pubblicità, posta in chiusura di ogni fascicolo e separata da una velina.

Sono numerose le tavole realizzate dagli artisti per ditte famose come la Richard-Ginori, Fernet Branca, Calderoni, Paneraj e Talmone; allo stesso tempo troviamo anche manifesti per opere musicali, come la celebre affiche della Tosca disegnato da Hohenstein.

La cartellonistica italiana inizia ad accrescere la propria fama nel 1874, quando viene inaugurato il reparto d’arte grafica presso la casa di pubblicazioni musicali Ricordi di Milano.

I più grandi cartellonisti nazionali (Terzi, Dudovich, Metlicovitz, Hohenstein) compaiono proprio in “Novissima”: nell’album del 1901 vengono presentati la locandina per la Tosca di Puccini, disegnato da Hohenstein e il cartellone per La strage degli innocenti, illustrato da Laskoff. Entrambe le opere mostrano una soluzione grafica fortemente drammatica, che richiama da vicino la monumentalità della pittura di Storia.

Hohenstein, che fu il primo direttore artistico della Ricordi, per il celebre manifesto di Tosca sceglie una composizione secondo la quale l’attenzione dell’osservatore viene catturata dalla figura chiara della protagonista, che, messa al centro, risalta sullo sfondo rosso. È un effetto fortemente espressivo, che mira a incuriosire e stupire lo spettatore. Una soluzione così drammatica mostra delle affinità, a livello stilistico, con i primi manifesti della cinematografia italiana, nello specifico sono evidenti le somiglianze tra l’opera di Hohenstein e il manifesto per il film Cabiria, ideato da Metlicovitz nel 1914. Metlicovitz fu allievo di Hohenstein presso la Ricordi e dalla litografia del maestro per Tosca riprende sia la centralità della figura femminile sia l’espediente decorativo del rosso.

Il manifesto musicale compare nuovamente nella sezione pubblicitaria di “Novissima” del 1904, in un cartellone disegnato da Metlicovitz per la Madame Butterfly. Qui l’attenzione dell’artista, più che sul produrre nello spettatore un effetto drammatico, si focalizza sul fascino esotico, tema in voga in quegli anni.

È interessante notare come la cartellonistica che compare in “Novissima” vada ad anticipare lo stile associato alla nascente industria cinematografica italiana. La produzione di locandine cinematografiche è forte all’interno dell’azienda Ricordi di Milano, dove sono ricorrenti i nomi degli artisti che collaborano alla nostra rivista. Si tratta di un lavoro di squadra che coinvolge riviste, artisti e industrie e che risulta determinante nell’affermare la particolare sfumatura dello stile modernista europeo che oggi chiamiamo Liberty.

Nelle riviste italiane e straniere di fine Ottocento e inizio Novecento la pubblicità si diffonde come nuovo mezzo di comunicazione, assumendo al contempo sia una funzione economica sia artistica.

Un aspetto importante delle pubblicità artistiche di “Novissima” riguarda il rapporto di collaborazione che si viene a creare tra gli illustratori e le industrie manifatturiere; in questo modo le pagine della rivista diventano un luogo di confronto e un trampolino di lancio che coinvolge gli artisti e la nascente industria italiana, allora in crescita, attraverso il rapporto di lavoro che si instaura tra la redazione della rivista, l’officina Ricordi e le varie aziende.

Per capire meglio il ruolo svolto dalle pubblicità in “Novissima” è utile approfondire il caso della collaborazione tra la società ceramica Richard-Ginori e la rivista.  Il felice connubio tra De Fonseca, i suoi artisti e la Richard-Ginori non si ferma alla realizzazione delle tavole pubblicitarie, ma ha ulteriori sviluppi che si concretizzano in occasioni di lavoro. De Fonseca, Bottazzi e Grassi si rivolgono alla ditta per la fornitura delle maioliche di rivestimento per la costruzione di un villino che partecipò al Concorso Nazionale di Architettura del 1909. Le maioliche sono realizzate su disegno di Vittorio Grassi, collaboratore di “Novissima” e “La Casa”; a questa collaborazione segue l’esperienza della Biennale veneziana del 1912, per la quale la ditta avviò la produzione di vasi disegnati da Grassi, Terzi, Mataloni e Bottazzi.

È un’operazione significativa perché l’incontro dei vari attori di questa scena avviene tra le pagine di “Novissima”, a dimostrazione dell’importanza e del ruolo che le riviste di inizio Novecento avevano nel fare da ponte tra arte e industria. La pubblicità non era dunque un mezzo utilizzato meramente per dare visibilità alle aziende italiane, ma era anche un modo di tessere una trama di relazioni tra industria e artigianato artistico al fine di avviare anche in Italia uno sviluppo industriale e che coinvolgesse le arti su modello della Arts & Crafts Society di Londra.

In Italia a inizio Novecento siamo ancora lontani dallo sviluppo industriale di tipo inglese, il Paese è ancora prevalentemente agricolo ma le idee, i modelli grafici e le soluzioni dei laboratori londinesi vengono ugualmente recepite: a Roma, nel 1880, era stata costruita la chiesa di San Paolo entro le Mura con i mosaici di Burne Jones, mentre su “Emporium”, a partire dal 1895, si iniziavano a presentare al pubblico italiano le idee e i lavori di Morris e dei suoi laboratori.

Il messaggio di Morris viene assorbito dal cenacolo degli artisti di “Novissima”, che hanno già sviluppato uno stile proprio e originale e si occupano in egual misura di illustrazione, pittura e arti applicate. Questi artisti, attraverso la collaborazione con “Novissima”, si mettono in contatto e al servizio dell’industria italiana, al fine di rendere reale l’utopia di un’arte “per tutti”, in grado di entrare fisicamente nelle case degli italiani attraverso gli oggetti d’arte e le riviste.

 

1901

Il primo numero di “Novissima” si apre con una copertina disegnata da Aleardo Terzi, raffigurante una giovane donna tra i rami di ciliegio, rappresentazione della primavera.

Il tema primaverile, al quale si accompagna il concetto di rinascita delle arti, conosce una larga diffusione nella grafica europea dell’epoca diventando una presenza costante sia in “Ver Sacrum” che in “Novissima”. I riferimenti alla rivista della Secessione Viennese sono molteplici e forniscono la chiave di volta utile a capire a quali artisti e a quali modelli grafici si ispirassero gli artisti italiani dell’epoca.

Oltre ai saluti per il nuovo anno posti in apertura, sfogliando la rivista appare evidente che non ci sia un programma unitario o un tema secondo il quale sviluppare gli articoli e le illustrazioni; queste ultime in particolare, appaiono slegate, come se fossero state scelte esclusivamente per la loro bellezza. Il primo numero si presenta come una sorta di raccolta di articoli, illustrazioni e componimenti poetici e musicali; la rivista è in una fase embrionale che andrà via via chiarendosi nelle annate successive.

Questa aria di sperimentazione si può cogliere nello squilibrio dato dal numero di immagini in rapporto al numero degli scritti: le illustrazioni occupano uno spazio di molto maggiore e la sproporzione risulta ancora più evidente scorrendo la sezione dedicata alle tavole di pubblicità artistica, che occupa un gran numero di pagine.

Tra le varie illustrazioni presenti nel fascicolo, alcune colpiscono più di altre per la modernità della tecnica e la bellezza dei disegni: tra queste spicca Sorrisi, litografia dell’artista Giorgio Kienerk. La tavola grafica rientra in un più ampio progetto del pittore che viene elaborato a partire dal 1900 e riguarda lo studio di volti femminili resi attraverso una tecnica “a macchia” dallo stile inconfondibile. La modernità di quest’opera colpisce soprattutto se messa a confronto con le illustrazioni di collaboratori più “accademici”, come ad esempio Riccardo Galli, che mostrano familiarità con una tecnica più tradizionale basata su un ampio uso del tratteggio e una spiccata attenzione nel rendere i volumi della figura.

Tra le illustrazioni pubblicitarie di questo fascicolo, quella che rappresenta lo stile Liberty con maggior eleganza è sicuramente la tavola di Mataloni eseguita per la gioielleria Calderoni di Milano; è l’unica pubblicità stampata in oro al fine di rendere l’idea della preziosità degli oggetti che intende pubblicizzare. Divenuta famosa, questa illustrazione sembra essere un omaggio alla “Venere liberty”, impersonata da una ragazza a figura intera che sorregge un cerchio d’oro con gioielli.

 

1902

L’elegante copertina di “Novissima” del 1902, disegnata da Antonio Rizzi, è forse quella che fra tutte riassume meglio le caratteristiche dello stile Liberty come bidimensionalità e ritmicità del decoro, nel quale la linea di contorno si contrappone alla mancanza di definizione tipica della pittura impressionista e postimpressionista.

A differenza della prima annata, dove non si ravvisava un filo conduttore negli scritti e nelle illustrazioni, nel secondo numero il tema centrale è il mare, inaugurato da un’illustrazione di Aleardo Terzi. Da questo momento in poi, come viene spiegato nell’articolo Trionfos!, la redazione si pone l’obiettivo di ridurre il numero di riproduzioni di quadri per dare maggior risalto alle illustrazioni appositamente create per la rivista. Il fatto che per questo fascicolo ci si attenga a un maggior ordine è da intendere al fine di lasciare spazio alla creatività degli artisti, che interpretano il tema scelto ognuno secondo il proprio stile.

Il mare è declinato in tutte le forme possibili, dalle marine alle illustrazioni che riprendono animali, come i pesci e i granchi di Luigi Brunelli, fino ad arrivare a composizioni più complesse. È questo il caso della tavola grafica di Antonio Rizzi, La spiaggia, nella quale in realtà l’elemento principale non è il mare bensì la figura femminile nuda che gioca con i granchi. Questo elemento è interessante, in quanto la cultura art nouveau affonda le radici in una sorta di mitologia nuova dove la Natura è la principale fonte di ispirazione. In questo fascicolo, infatti, la figura della donna si presta alle più variegate trasformazioni: dalla donna-granchio dello stesso colore del tramonto, presente nell’illustrazione di Rizzi, alla donna-spuma ritratta da Rodolfo Paoletti.

Se il tema marino occupa gran parte del numero di “Novissima” del 1902, l’argomento maggiormente messo in luce nella seconda parte è il ricordo di Giuseppe Verdi, morto l’anno precedente. Edoardo De Fonseca dedica al compositore un commosso articolo, seguito da un’illustrazione commemorativa di Antonio Rizzi e da una lettera inedita di Verdi indirizzata a Cesare De Sanctis. Accanto alla lettera viene pubblicata la riproduzione di un pannello decorativo di Bistolfi, La danza, opera su seta che faceva parte di una serie di quattro pannelli presentati all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900 e all’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa moderna a Torino, nel 1902. I rimanenti tre pannelli, che raffigurano La Pittura, La Musica e La Lettura, compaiono nelle pagine seguenti.

 

1903

La copertina del terzo numero di “Novissima” viene affidata allo scultore Edoardo Rubino, che raffigura una giovane donna con una lira, elemento che funge da introduzione al tema della musica trattato all’interno dell’album. Realizzata con la tecnica della pressa a freddo, la copertina ricorda le tecniche del bassorilievo e del cammeo, presentandosi a livello di resa come una forma ibrida tra stampa e scultura.

Il tema musicale si sviluppa in un’ampia sezione intitolata Impressioni pittoriche da composizioni musicali celebri, comprendente illustrazioni appositamente create per la rivista ispirate a varie composizioni di autori come Beethoven, Chopin e Schubert. Ogni illustrazione è separata dalle altre pagine per mezzo di una velina, che riporta nome dell’autore, titolo dell’illustrazione e riferimenti all’opera musicale e al compositore a cui si ispira. Le tavole sono incorniciate e stampate su tipologie di carta dal diverso spessore e texture (lucida od opaca, liscia o ruvida), che conferiscono alle opere una maggiore raffinatezza.

Un elemento grafico che caratterizza il numero in esame è l’utilizzo dei capilettera, espediente che ricorre sovente nella grafica art nouveau e liberty. In questo numero i capilettera seguono una linea eterogenea, non si sviluppano secondo un tema specifico e sono realizzati da diversi autori; ciò che li accomuna, tuttavia, è l’ispirazione alla classicità e il fatto di svilupparsi in modo indipendente dal testo, assumendo una funzione meramente ornamentale.

Tra gli articoli presenti in questo fascicolo il più rilevante è sicuramente quello scritto da Diego Angeli, Il nuovo stile, nel quale il critico traccia un’interessante panoramica dell’Esposizione internazionale di arti decorative di Torino. Il dibattito culturale intorno all’Esposizione in quegli anni è molto vivo e riguarda principalmente la situazione dell’arte italiana rispetto a quella europea; una particolare attenzione è rivolta anche all’educazione artistica, al fine di individuare metodi di insegnamento che tenessero conto della rapida evoluzione dei tempi e delle tecniche, per preparare artisti e artigiani capaci. Il lavoro dei critici in merito a questi temi compare su riviste come “Novissima” e “L’arte decorativa moderna” e rimane ad oggi di primaria importanza per comprendere la portata di questo fenomeno artistico.

 

1904

Per il numero del 1904, l’editore sperimenta un nuovo approccio grafico, affidando l’intero impianto decorativo a un singolo autore, ottenendo così un fascicolo, visto nel suo insieme, più ordinato e unitario. Ogni articolo presenta dei raffinati capilettera ideati dal bolognese Alfredo Baruffi, che raffigurano giovani donne vestite all’antica con abiti sui toni del verde, non collegate al contenuto degli articoli, ma scelte semplicemente come espediente decorativo.

La copertina è affidata a Marcello Dudovich, il principe del cartellone pubblicitario all’italiana, che aveva iniziato a lavorare per lo stabilimento arti grafiche Ricordi di Milano sotto la guida di Leopoldo Metlicovitz. Rispetto alle copertine precedenti, l’invenzione di Dudovich mostra uno stile più asciutto e meno ornato, l’elemento floreale viene abbandonato in favore di una decorazione resa attraverso il panneggio rosso che avvolge morbidamente le figure femminili.

Tre articoli e le relative illustrazioni di questo numero di “Novissima” sono dedicati a personalità importanti della letteratura italiana, che riassumono in sé epoche differenti: Petrarca per il Medioevo, Alfieri per l’ancient règime e Carducci per l’età contemporanea. È interessante notare come, dopo l’articolo Il nuovo stile di Diego Angeli pubblicato l’anno precedente, nel 1904 venga dato così ampio spazio alla storia della letteratura italiana, scegliendo tre grandi scrittori come simboli di epoche diverse della storia del Paese, quasi a voler ricercare quelle tradizioni che secondo Angeli l’Italia aveva tralasciato nell’esposizione torinese del 1902.

Per quanto riguarda le illustrazioni, sono ancora presenti tavole grafiche molto diverse tra loro, sia per tipologia, sia per tecnica e stile: coesistono riproduzioni di opere pittoriche e tavole realizzate appositamente per la rivista, di respiro molto ampio. Tra i collaboratori figurano un giovane Giacomo Balla e Plinio Nomellini, ma ad essere prevalente è la presenza dei bolognesi, come Alfredo Baruffi, Augusto Majani e Luigi Bompard. Quest’ultimo propone due intense tavole grafiche che si potrebbero interpretare come un unicum sul tema amore-odio; il taglio ravvicinato e la scelta cromatica rendono particolari i due disegni, dove il colore (rosso per l’Amore e nero per l’Odio) gioca un ruolo di primaria importanza nell’enfatizzare la contrapposizione dei due sentimenti.

La sezione pubblicitaria di “Novissima” del 1904 risulta ridotta rispetto ai fascicoli precedenti, ma presenta tavole di raffinata bellezza a cura di Magrini e Bompard, oltre alla locandina per la Madame Butterfly illustrata da Leopoldo Metlicovitz.

 

1905

Il 1905 segna una svolta nella storia della rivista, perché a partire da questa data il direttore sceglie di pubblicare unicamente illustrazioni realizzate per “Novissima”, escludendo le riproduzioni di opere pittoriche, al fine di far conoscere l’arte dell’illustrazione italiana e metterla in relazione ai risultati delle altre riviste moderne europee, come “Jugend” e “Ver Sacrum”. L’argomento dell’illustrazione è affrontato da Vittorio Pica nell’articolo La decorazione del libro moderno, che, a distanza di due anni dall’Esposizione internazionale di arti decorative moderne di Torino, analizza i risultati della tipografia e dell’illustrazione in Europa.

Come per il fascicolo precedente, anche quest’anno l’illustrazione degli articoli è affidata ad Alfredo Baruffi; il suo stile inconfondibile si caratterizza per l’uso della figura femminile e della vegetazione descritte con un segno pulito e sinuoso, che esalta la bellezza delle forme e prende ispirazione, nella ricchezza dei particolari, da modelli di derivazione inglese e più specificatamente preraffaellita.

Le illustrazioni di questo numero sembrano rispondere all’esigenza di riallacciare i temi alla storia e alla celebrazione della figura femminile, rappresentata con efficacia da Aleardo Terzi, Giovanni Maria Mataloni, Alberto Micheli, Marcello Dudovich, Luigi Bompard e Alfredo Baruffi. In queste tavole grafiche la donna è rappresentata in più varianti che mettono in luce l’eleganza femminile (Terzi e Dudovich), la tenerezza della madre (Micheli), ma anche il fascino di una figura femminile senza tempo, che riprende la grazia delle figure mitologiche, come in Psiche di Mataloni, o che si presenta in una perfetta fusione con gli elementi naturali, come nel caso de La rugiada di Bompard, tavola in linea con il gusto nouveau che vede la sinuosità della figura femminile in un felice connubio con la fluidità dell’acqua.

La storia è un altro tema che ricorre nelle illustrazioni di questo anno, ripresa probabilmente per riallacciare la grafica italiana alle sue radici, sul modello dei disegnatori tedeschi.

A chiusura troviamo una divertente sezione di sei caricature disegnate dal bolognese Augusto Majani, che ritraggono celebri personaggi dell’epoca.

 

1906

La copertina, intitolata Pioggia di rose, è ancora una volta di Aleardo Terzi, che realizza anche le decorazioni per gli articoli. Il tema è quello ricorrente della figura femminile unita all’elemento floreale; nella realizzazione l’artista sembra tuttavia aver abbandonato il naturalismo delle figure dei primi disegni per “Novissima”, in favore di una grafica più asciutta giocata quasi esclusivamente sul contrasto tra bianco e nero, che elimina le mezzetinte e il chiaroscuro utilizzati negli anni precedenti.

Già nel 1905 Terzi, nella realizzazione di due tavole pubblicitarie per Talmone e Paneraj, sembrava aver preferito una linea più pulita, meno naturalistica, per le sue figure femminili; ecco quindi che nel 1906 porta avanti questa tendenza creando una serie di accattivanti ritratti femminili, denominati L’eterno femminino, che mostrano una spiccata stilizzazione e si basano sul contrasto, tecnica derivata dalla stampa fotografica. Le quattro tavole, come la maggioranza delle illustrazioni dell’artista, raffigurano donne borghesi, nelle quali si poteva riconoscere la lettrice-tipo di “Novissima”.

Questo album, a differenza dei precedenti, si distingue per un ridotto numero di collaboratori e per la presenza di cicli figurativi unitari: vengono infatti presentati, separati da una velina, il gruppo L’eterno femminino di Terzi, il ciclo La perpetua vicenda di Cambellotti, una serie di disegni a matita a soggetto femminile di Innocenti, le Reminiscenze della Pampa di Collivadino, due tavole di Edoardo Rubino intitolate Fosfeni e la serie delle Armonie in verde di Majani; rimangono a parte alcune illustrazioni di vari artisti.

Duilio Cambellotti, ne La perpetua vicenda, presenta il tema della trasformazione dell’elemento naturale, in questo caso l’albero, in oggetto ideato, creato e utilizzato dall’uomo, la nave. Il messaggio è simbolista; attraverso queste tavole l’artista, con un’atmosfera cupa, raffigura l’elemento ligneo come se avesse in sé fin dal principio le pulsioni che lo portano a farsi nave senza l’aiuto dell’uomo, che non viene raffigurato. Lo stesso tema della barca viene ripreso dall’artista nel 1907-1908 nella realizzazione delle scenografie per La nave di D’Annunzio.

Camillo Innocenti realizza una serie di disegni a matita, nei quali mostra un’attenzione particolare per lo stile della donna borghese, analizzandone con tratti decisi l’abbigliamento e le acconciature; ben altra intonazione assumono invece le due tavole di Edoardo Rubino denominate Fosfeni. Qui l’attenzione è data al chiaroscuro dei nudi e alle decorazioni intorno al capo delle donne, rappresentanti il fenomeno visivo del fosfene.

 

1907

L’evento al quale viene prestata maggiore attenzione è L’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, conosciuta anche come Esposizione del Sempione. “Novissima” fu l’unica pubblicazione italiana che in questa occasione ottenne il diploma d’onore, massima onorificenza assegnata alle riviste di carattere decorativo; è questo un riconoscimento di notevole valore perché premia la qualità e la modernità della stessa, elevandola allo stesso grado delle pubblicazioni d’arte straniere, e riconoscendo all’Italia un primato in questo ambito.

In questo fascicolo tre critici d’arte si occupano dell’Esposizione: Vittorio Pica, con l’articolo L’arte decorativa all’Esposizione di Milano, Diego Angeli con Rilegature d’arte, e Ugo Ojetti con L’arte omicida. Questi scritti, oltre a ricostruire fedelmente il clima culturale dell’epoca, mettono in evidenza un problema di primaria importanza, riguardante l’istruzione artistica: gli studenti non avevano una preparazione adeguata, non conoscevano la Storia dell’Arte e, nella maggior parte dei casi, non avevano futuro. La colpa era dello Stato, che non garantiva un sistema di studi consono come invece faceva per le altre professioni; serviva, in primis, una riforma che andasse a colmare la distanza tra le Accademie e le Scuole d’arte industriale che allora appartenevano addirittura a due ministeri differenti, quello dell’Istruzione e quello dell’Agricoltura. Il dibattito critico si svilupperà anche negli anni a seguire e la questione verrà risolta solo con un regio decreto del 31 dicembre del 1923, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 7 febbraio 1924, che riunirà le Scuole d’arte e le Accademie sotto il Ministero della Pubblica Istruzione.

La redazione di “Novissima”, per il 1907 si mostra attenta al tema, prendendo posizione in favore della necessità di riformare l’Istruzione. Per queste ragioni, probabilmente, per la decorazione viene scelto un artista che rappresenta in modo perfetto la figura del moderno artista-artigiano. Si tratta di Duilio Cambellotti, che realizza per la copertina un’immagine dove un uomo nudo innaffia un melograno. Lo stile di questo numero sembra infatti prendere nuova vita attraverso alcuni elementi che ne rinnovano l’immagine: l’utilizzo dell’indice, che compare per la prima volta, e una decorazione moderna e asciutta.

Le illustrazioni non sono legate agli articoli ma si sviluppano autonomamente come sezioni separate, ciascuna affidata a un autore diverso. Le tavole grafiche più interessanti sono Studio di Medusa, unica illustrazione che Galileo Chini realizza per “Novissima”, le Quattro pagine sportive di Aleardo Terzi e I due vecchi, di Duilio Cambellotti, immagini intense che rappresentano le personificazioni dell’autunno e dell’inverno.

 

1908

La copertina è realizzata da Giovanni Mataloni, che raffigura una giovane donna chinata per soffiare su un braciere; l’impostazione dell’immagine presenta elementi che fanno pensare a un’ispirazione all’arte ellenica come l’abito e l’acconciatura, ma anche il contrasto tra il segno nero e il color terracotta dello sfondo. Alla ripresa della classicità, Mataloni unisce elementi di derivazione secessionista come l’uso di parti in rilievo e la preminenza del colore oro.

L’impaginazione di questo volume si mostra coerente con la scelta adottata nell’anno precedente, che mette ordine nell’aspetto generale del fascicolo e segue l’idea di una parte grafica, realizzata da Ezio Castellucci, che si sviluppa in modo autonomo rispetto agli articoli.

Tra le illustrazioni del volume, compaiono due tavole di Giacomo Balla, Il cesellatore e Lo scultore, che raffigurano rispettivamente Duilio Cambellotti e Giovanni Prini e testimoniano il rapporto di amicizia tra questi artisti. Se a prima vista questi possono sembrare semplicemente dei ritratti, un’analisi più approfondita può portare a riconoscervi una spiccata attenzione per il tema del lavoro: la visione dell’artista come artigiano e creatore è infatti alla base di queste opere. Tra le due illustrazioni, forse quella più intensa e commovente, e nella quale si nota con maggior chiarezza l’attenzione verso la gestualità creatrice dell’artista, è il ritratto di Cambellotti, che ben descrive il suo animo instancabile di grande lavoratore austero e impegnato.

Le due acquetinte di Camillo Innocenti, realizzate nel 1906, denotano tutt’altra intonazione e vanno a completare la serie di ritratti a soggetto intimista che l’artista aveva pubblicato su “Novissima” due anni prima, mostrando la stessa attenzione per la grazia femminile e per i particolari dell’acconciatura e dei gioielli.

Antonio Rizzi realizza un ciclo di quattro tavole a tema storico dalla forte resa pittorica, che raffigurano rispettivamente Antichità, Medioevo, Rinascenza e Modernità.

L’ultimo ciclo grafico del fascicolo è costituito da dodici ritratti caricaturali di personaggi illustri di Ezio Castellucci, intitolato Maschere.

Il tema principale di cui si discute negli articoli di questo volume è quello della casa, argomento che comprende l’architettura, l’arredamento degli interni e la cura del giardino. Il tema va ad anticipare la nascita di una nuova rivista ideata da De Fonseca e dedicata al moderno abitare; nel 1908 nasce infatti “La Casa”, alla quale collaborano molti degli artisti di “Novissima”.

 

1909

Alfredo Baruffi contribuisce notevolmente a questo numero di “Novissima”: per la terza volta viene affidata a lui la decorazione dell’intero volume, per il quale disegna anche una copertina ricca di dettagli che ha come protagoniste tre figure femminili in perfetta sintonia con la vegetazione. Lo stesso fil rouge del motivo floreale unito alla sinuosità dell’immagine della donna si ripresenta nelle decorazioni che accompagnano gli articoli della rivista, che, ispirandosi alle figure di Klimt, mostrano le personificazioni di Arte, Amore, Genialità, Gioventù, Grazia, Letizia, Fantasia e Poesia, inserite in un’elegante cornice. Lo stile di Baruffi è una sintesi di varie anime del modernismo internazionale, che guarda all’Inghilterra di Walter Crane e dei Preraffaelliti, all’eleganza del segno avvolgente di Alphonse Mucha e allo stile asciutto della Secessione.

Negli anni che vanno dal 1902, quando “L’Arte decorativa moderna” presenta per la prima volta Klimt al pubblico italiano, al 1910, anno in cui alla Biennale di Venezia a Klimt viene dedicata una sala, sono molti gli artisti italiani che si ispirano all’arte della Secessione viennese. Questo diffuso interesse è dimostrato anche in “Novissima”, tra il 1908 e il 1910, periodo nel quale la redazione mostra di prediligere per le illustrazioni artisti di formazione europea come ad esempio Castellucci e Dudovich.

La maggior parte del fascicolo è dedicata alle riproduzioni dei bozzetti preparatori di Aristide Sartorio per la realizzazione del fregio della nuova aula del Parlamento, un’opera monumentale di rilievo storico. Le altre illustrazioni non sono accomunate per temi, ma vengono affidate ad autori molto presenti nella storia della rivista: il tema della tavola grafica di Duilio Cambellotti, Il riposo, è quello consueto della campagna romana, mentre l’amico Giacomo Balla realizza due illustrazioni su scene di vita famigliare. Aleardo Terzi si conferma una presenza costante e pubblica tre disegni sui diversi momenti della giornata, Mattino, Meriggio e Sera, in cui sembra trovare un rinnovato interesse per il colore, abbandonato nei fascicoli precedenti. La figura femminile è sempre il suo genere preferito e anche in questi lavori mostra una particolare sensibilità per la grazia e per l’abbigliamento, non mancando di cogliere momenti di un’intimità rara.

 

1910

L’ultima copertina di “Novissima” viene disegnata da Umberto Bottazzi, mentre per la decorazione del volume l’artista scelto è Vittorio Grassi, che realizza tondi decorativi dal carattere sobrio ed elegante, dove il ghirigoro floreale si asciuga in favore di una linea più essenziale. La scelta della coppia Bottazzi-Grassi dipende probabilmente dalla collaborazione tra i due nella progettazione del villino “La Casa” nel 1909, per il quale disegnarono il progetto e le vetrate.

Nei tondi decorativi che Grassi realizza è visibile una perizia tecnico-grafica che richiama la tecnica della vetrata artistica, vero fiore all’occhiello del villino sopra citato. Anche nella copertina di Bottazzi viene ripresa l’idea del tondo, donando al fascicolo una continuità visiva tra la veste e le pagine interne. La protagonista dell’immagine è ancora una volta la donna; un elemento interessante di questa femme fatale dallo sguardo misterioso è l’abito: il tessuto plissé, la forma scivolata e i laccetti che lo fermano sulle braccia e sotto al seno richiamano l’iconico Delphos di Mariano Fortuny, che lo aveva brevettato nel 1909.

Le illustrazioni del fascicolo non seguono uno specifico tema, ma alcune di esse mostrano una vicinanza a temi sociali: avvicinatosi a Cambellotti, Vittorio Grassi inizia ad interessarsi per un breve periodo all’arte sociale, l’illustrazione I vecchi rientra sicuramente in questo tema, riprendendo quello delle due illustrazioni di titolo analogo presentate da Cambellotti su “Novissima” del 1907.

Al tema della maternità e dell’infanzia, invece, vanno ricollegate le due coloratissime illustrazioni di Nino Bertoletti, intitolate Le balie e L’età dorata.

Felice Casorati pubblica tre disegni eseguiti nel 1909: Rosetta, La zingara e La vecchia, dove ad essere prevalente è l’effetto pittorico dato dai riflessi di luce sui corpi e dal contrasto con lo sfondo, reso sfocato da una tecnica sfumata.

Per quanto riguarda gli articoli, non viene data un’attenzione particolare al tema dell’arte; alcune dei motivi che vengono affrontati sono il viaggio e il progresso tecnologico, mentre ampio spazio è riservato ai racconti di Antonio Beltramelli e Nino Savarese.

 

CONCLUSIONI

Nel 1910 il dibattito critico su quale fosse la situazione dello stile in Italia, che aveva animato la discussione teorica negli anni precedenti e che aveva preso il via soprattutto in relazione all’Esposizione di Torino nel 1902 e all’Esposizione del Sempione del 1906, sembra essersi assopito.

A livello europeo questo disinteresse diventa un comune sentire, alimentato dalla crisi in cui il modernismo internazionale era entrato negli ultimi anni; lo Jugendstil era in declino così come l’utilizzo delle decorazioni floreali. Negli anni intorno al 1910 l’architettura e la scultura vanno semplificandosi, così come la forma dei nuovi arredi, per i quali si preferisce una maggior funzionalità; la pittura europea si avvia verso nuove avanguardie come il Cubismo e il Futurismo e in Italia le arti applicate si rivolgono a un rinnovato gusto per le tradizioni e per soluzioni decorative classicheggianti e, più specificamente, cinquecentesche.

Seguendo questo ragionamento, il cambiamento di stile nell’illustrazione di “Novissima” appare evidente: se confrontiamo, ad esempio, la copertina dell’album del 1903 con quella del 1910, vediamo come l’elemento floreale vada perdendosi in favore di una linea comunque sinuosa, ma più asciutta.

Secondo Rossana Bossaglia, la storia del Liberty può dirsi conclusa con l’esposizione torinese del 1911 anche se, per comodità, la data può essere spostata fino al 1914, anno di inizio della Grande Guerra (Bossaglia, Milano, 1968, p. 30). Non trattandosi di un declino lineare rimane difficile stabilire una data di fine dello stile, tuttavia negli articoli di “Novissima” nel 1910 non si accenna al tema e anche le illustrazioni, di vario genere, lasciano da parte le caratteristiche della linea serpentina e del gusto floreale che negli anni precedenti avevano contribuito a definire lo stile della rivista.

La fine di “Novissima” non coincide quindi con la fine dello stile Liberty, che seppure con cambi di rotta si protrae fino agli anni che precedono il primo conflitto mondiale, l’evoluzione dell’illustrazione all’interno della rivista evidenzia però i cambiamenti interni allo stile, permettendo di vederne di anno in anno le differenze, gli sviluppi e le soluzioni adottate dai vari artisti.

Anna Corrà

Salomè di Oscar Wilde illustrata da Aubrey Beardsley

Nel 1896 va in scena per la prima volta a Parigi la Salomè di Oscar Wilde scritta tre anni prima in un francese lussureggiante e stupefacente. Nel 1894 il testo wildiano viene arricchito con le stampe di Aubrey Beardsley, artista inglese abile nel coniugare il ritmo lineare dei preraffaeliti, soprattutto quello di Burne-Jones, con quello delle xilografie giapponesi attraverso la linea curva e un senso avvolgente. Non tutte le proposte di Beardsley vennero accettate e alcune tavole furono scartate per il loro eccessivo erotismo; invenzioni come la prima versione de La toilette di Salomè Salomé su una panca, o Direttrice d’Orchestra vennero comunque rese note grazie alla pubblicazione di una cartella di disegni dell’artista edita nel 1907 da John Lane.

Wilde e Beardsley possono essere considerate tra le prime figure che si sono mosse all’interno del modernismo internazionale, lo stile nascente fin de siècle volto a superare la tradizione accademica e lo storicismo ottocentesco ricorrendo a un gusto nuovo che si ribellasse ai dettami corrotti della vita borghese e alla nascente industrializzazione. Fonte di ispirazione diventano la natura, la linea curva, le stampe giapponesi e la figura femminile. Il corpo, in particolare quello femminile, prese ad essere considerato e apprezzato in modo del tutto nuovo. Le creature angelicate dipinte dai preraffaelliti acquisiscono una apparenza erotica e demoniaca al tempo stesso, facendo diventare la donna un emblema, un simbolo, a servizio del nuovo stile grafico e sinuoso. Nel modernismo internazionale la donna può diventare una mangiatrice di uomini, un idolo, la femme fatale, una Giuditta assassina, la vampira assetata di sangue o l’incarnazione del peccato. In questo contesto si inserisce la figura di Salomè, vera e propria divinità dell’estetismo, eroina dell’Art Nouveau. È proprio questo ideale femminile che Oscar Wilde propone nel suo testo teatrale, il mito romantico della donna fatale corrotta e innocente al tempo stesso, irresistibile e distruttrice.

Molte erano le versioni che circolavano al tempo in cui Wilde componeva la sua opera. È come se si proponesse di offrire una sintesi definitiva della figura della principessa giudaica descritta unanimemente come una donna giovane, crudele e con un’estrema componente erotica. Tra le versioni che senza dubbio Wilde conobbe furono soprattutto Herodias di Gustave Flaubert, Herodiade di Massenet e Herodiade di Mallarmè. Ma non dimentichiamo che moltissimi sono gli esempi in pittura, primo fra tutti il “pittore delle Salomè” Gustave Moreau che ne dipinge diverse versioni.

La Salomè di Wilde, dramma in un unico atto, fu pubblicata nel 1893 e poi tradotta e pubblicata in inglese l’anno successivo da Alfred Douglas. Nessun attore, per molti anni, volle rischiare di metterla in scena in Inghilterra; anche la prima rappresentazione parigina nel 1896 non fu un gran successo, né di pubblico né di critica. Con le illustrazioni in bianco e nero di Beardsley aggiunte per l’edizione inglese, il testo teatrale viene ulteriormente arricchito di rimandi simbolisti. La linea curva e serpentina, il sapiente uso dello spazio e i richiami alle xilografie erotiche giapponesi rendevano perfettamente la dimensione onirica e l’idea di perversione e orrore a cui Wilde mirava.

Attraverso la tecnica dell’incisione i personaggi biblici prendono vita in riquadri con una nuova concezione di cornice e di superficie pittorica, dove la linea decorativa tracciata su un piano bidimensionale sostituisce la tridimensionalità della realtà. La prima illustrazione che apre il libro è un fitto intreccio floreale che inquadra il frontespizio. La sensazione di horror vacui sovrasta le figure, notiamo un ironico fauno ermafrodito, con occhi al posto dei capezzoli e dell’ombelico, un “angioletto”, dall’aspetto satanico, e una strana farfalla dalle ali bianche. Una composizione analoga venne utilizzata anche nella tavola con l’indice delle illustrazioni. La sequenza delle tavole inizia con La donna della luna, opera con cui Beardsley sembra annunciar un nuovo stile, dove la pura linea si fa protagonista e governa grandi spazi bianchi e poche zone nere, ben disposte. Con Il kimono pavone è evidente il richiamo alla tradizione di stampe giapponesi e al decorativismo del nascente modernismo internazionale. Qui si vede la grandezza dell’artista che crea delle invenzioni estremamente bilanciate. Equilibrio sapiente tra campiture nere e spazi bianchi, tra ricche decorazioni e vuoti leggeri. Ne La cappa nera si vede come Beardsley usi dei piccoli puntini che talora vanno a sostituire una linea di contorno troppo netta, per creare leggerezza e sfumature chiaroscurali. In Un lamento platonico l’intreccio di rami e fiori che si sviluppa verso l’alto bilancia l’appesantimento dato dalla drammatica macchia nera del drappo funebre del giovane siriano che divide nettamente lo spazio dell’incisione. Anche qui l’uso del pieno-vuoto e dell’accostamento del rigore geometrico, dato dall’albero stilizzato, con decorazioni floreali danno significato all’ampio spazio vuoto in alto a sinistra e spostano l’attenzione dalla tematica qui affrontata di necrofilia amorosa. L’incontro di Salomè col Battista è una delle scene più espressive dell’opera. Si gioca totalmente sul contrasto delle due figure: il casto Battista e la prorompente Salomè. Duro profilo per il primo, descritto dall’alternarsi di veli bianchi e neri che costruiscono la sua figura; torbida sensualità per la seconda, che offre la sua nudità tra veli e simboli erotici. È il momento del rifiuto del Battista, la tensione tra le due figure è percepibile nello sguardo. Con Entra Erodiade possiamo assistere alla vena ironica, finora rimasta celata, dell’artista. Erodiade è presentata da figure e oggetti di un teatro immaginario: un mago col caduceo, un mostro simbolo di lussuria, un androgino con una maschera nera e la foglia di fico e delle candele falliche. Ne Gli occhi di Erode si possono vedere molti dei topoi che verranno poi ripresi dall’Art Nouveau, come il pavone con la particolarità delle sue piume, le rose dai petali stilizzati e il decorativismo di alcuni insetti – in questo caso farfalle. La danza del ventre mostra la sensualità della giovane Salomè e attraverso il movimento creato dai fiori sembra che propaghi le note della musica del liuto, in basso a sinistra, suonato dalle dita di un mostriciattolo diabolico. Con la seconda versione de La toilette di Salomè torna l’evidente contrapporsi di una sofisticata leggerezza e una decisa campitura nera: il piumino della cipria affiancato alla grande massa uniforme dei capelli; i frivoli veli dell’abito, descritti dai puntini, stretti nella stoffa corvina; le fragili porcellane orientali sui piani di mobiletti che guardano a Mackintosh. La serie di illustrazioni di Beardsley si conclude con Premio per la danzatrice e Climax, in un clima drammatico di morte e di sangue. Soprattutto l’ultima immagine diventerà rappresentativa del simbolismo decadente di fin de siècle, si vede la forza sadica dell’amore di Salomè per la testa decapitata del Battista. Il sangue che gocciola dalla testa cade nel mare nero per poi rinascere sotto forma di fiore.

L’opera teatrale termina con la scena del bacio di Salomè che dichiara che l’aspro sapore del sangue è forse quello dell’amore. A questo punto Erode ordina ai soldati di uccidere Salomè, figlia di Erodiade, principessa di Giudea.

Andrea Chesini

Aldo Manuzio e l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna

L’autore dell’opera: un mistero insoluto

Il nome dell’autore del testo dell’Hypnerotomachia Poliphili non compare in modo esplicito nel frontespizio, né in altre parti del volume, e nel corso dei secoli l’opera è stata attribuita a numerosi autori, tra i quali si ricordano Lorenzo il Magnifico, Giovanni Pico della Mirandola e lo stesso Manuzio.

La paternità dell’opera è stata unanimemente riconosciuta ad un Francesco Colonna, il cui nome si ricava dalle lettere iniziali di ogni capitolo del volume, che vanno a comporre il lungo acrostico: “Poliam frater Franciscus Columna peramavit“, traducibile come “Frate Francesco Colonna amò intensamente Polia”, protagonista femminile dell’opera.

Resta invece ancora aperta la questione relativa all’identificazione esatta di Francesco Colonna. Secondo l’ipotesi più nota, basata su un’annotazione del 1512 di Apostolo Zeno, si tratterebbe di un frate domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo, sul quale si hanno poche e lacunose informazioni. Nato a Venezia verso il 1433, viene menzionato tra i sacerdoti del convento veneziano in un documento del 1472. Nel 1477 venne misteriosamente espulso da Venezia, per poi esservi riammesso alcuni anni dopo. Rientrato in Laguna, nel 1493 divenne predicatore a San Marco e nel 1495-1496 ottenne l’incarico di priore; inoltre fu sindaco della Scuola di San Marco e sacrista della chiesa del suo convento, dove morì nel 1527.

Secondo un’altra ipotesi, proposta qualche anno fa dallo storico dell’arte Maurizio Calvesi, l’autore del testo potrebbe essere un componente della nobile famiglia Colonna di Roma, riconoscendolo nel Francesco Colonna signore di Palestrina e “frater”, cioè membro, dell’Accademia Romana di Pomponio Leto. Tale interpretazione comprende anche la rilettura di alcune ambientazioni ed episodi descritti nel testo, che farebbero riferimento a luoghi precisi e a fatti storici legati ai feudi di Preneste, l’antica Palestrina. Infine, Calvesi suggeriva la possibilità di un diretto legame tra Colonna e Manuzio, giustificabile considerando le origini laziali dello stampatore.

Maddalena Oldrizzi

La storia di Polia e Polifilo

L’Hypnerotomachia Poliphili (La battaglia d’amore in sogno di Polifilo) è il primo libro a stampa illustrato della storia, poiché il testo, impaginato con eleganza e ed equilibrio, è accompagnato da 172 xilografie ossia immagini incise su lastre di legno.

Edita nel 1499 dalla tipografia veneziana di Aldo Manuzio, l’opera ha come tema centrale l’amore platonico, rappresentato dalla ricerca da parte di Polifilo (letteralmente “colui che ama molte cose”) della donna amata, Polia (letteralmente “moltitudine”). Polifilo intraprende, in sogno, un vero e proprio viaggio onirico di iniziazione, raccontato in prima persona, che lo porterà ad affrontare difficili prove, ad attraversare luoghi impervi e a incontrare creature mostruose, figure mitologiche e allegoriche. Ma il protagonista si sveglia in un secondo sogno, all’interno del primo, in cui alcune ninfe lo conducono dalla loro regina e gli chiedono di dichiarare il suo amore per Polia, indi lo conducono davanti a tre porte. Polifilo sceglie la terza e lì trova Polia. I due sono condotti da altre ninfe in un tempio per la cerimonia del fidanzamento e lungo la strada passano attraverso cinque processioni trionfali che celebrano l’unione degli amanti. Finalmente la giovane coppia viene trasportata da una nave condotta dal dio dell’amore, Cupido, sull’isola di Citera, dove assistono ad un’altra processione trionfale che celebra la loro unione. A questo punto del romanzo si inserisce una seconda voce, quella di Polia, che descrive l’erotomachia dal suo punto di vista. Il racconto ritorna nelle parole di Polifilo quando viene respinto da Polia, ma Cupido le appare in sogno e la costringe a tornare dall’amato, che appare svenuto, come morto, ai suoi piedi, e a riportarlo in vita con un bacio. Gli amanti finalmente riuniti vengono benedetti da Venere, ma quando Polifilo sta per prendere Polia tra le sue braccia, ella si dissolve nell’aria e Polifilo si sveglia.

Il significato reale del racconto è incredibilmente difficile da interpretare, anche a causa delle citazioni e dei continui richiami a miti e leggende greche e latine. Il linguaggio usato dall’autore è altrettanto complesso e intreccia italiano e latino, con inclusione di eruditi termini greci che contribuiscono ad impreziosirne il lessico e ad aumentarne la problematicità semantica. Le parole scritte si mescolano alle originali immagini grafiche che creano un mondo fantastico e affascinante, di cui l’osservatore entra a far parte. Non da ultimo, Aldo Manuzio ha arricchito il volume inventando impaginazioni dalle strutture innovative, in cui il testo non rispetta una composizione tradizionale che assecondi la sagoma rettangolare del foglio, ma viene modellato secondo linee e schemi mai visti prima tra le pagine di un libro.

L’opera va quindi interpretata e ammirata nella sua interezza, prendendo atto che i suoi elementi di fascino derivano anche dal rapporto e dalla compenetrazione tra immagini, testo nell’impaginazione, che da vita ad una vera e propria fusione lessicale e visiva.

Maddalena Oldrizzi

Andrea Polati

Aldo Manuzio 

Aldo Manuzio (1449/1452 – 1515) rappresenta una delle più affascinanti figure di umanista e stampatore della Venezia rinascimentale.

Nato a Bassiano (nei pressi di Latina) verso la metà del Quattrocento, compì studi umanistici e scientifici a Roma e a Ferrara, divenne tutore dei principi di Carpi, Alberto e Lionello Pio, per poi trasferirsi a Venezia, dove presumibilmente continuò a insegnare e a occuparsi di filologia e linguistica. La svolta nella sua carriera avvenne però nel 1494, quando aprì una propria stamperia in contrada di Sant’Agostin, specializzata nella pubblicazione di testi di autori contemporanei e di opere letterarie e filosofiche in lingua greca e latina.

Il motto della stamperia, “Festina lente” (affrettati con lentezza), sembra derivare da una moneta romana con l’effige di Tito Vespasiano: comparve per la prima volta in greco nella dedica delle opere di Poliziano a Sanuto del 1498, mentre l’emblema con il delfino che si stringe intorno al fusto di un’ancora venne introdotto nel 1502, diventando il logo delle opere stampate da Manuzio. L’immagine, già presente in una delle illustrazioni dell’Hypnerotomachia Poliphili del 1499, si adattava perfettamente al motto scelto qualche anno prima, in quanto il delfino era considerato simbolo della velocità, mentre l’ancora rappresentava la saldezza e l’immobilità.

Dal 1500 Aldo Manuzio diede vita ad una collana di libri di piccole dimensioni e a prezzo contenuto, stampati per la prima volta con caratteri corsivi, detti aldini, ispirati alle lettere dei testi originali ellenici. L’attenzione rivolta da Manuzio al mondo letterario e culturale greco è confermato anche dalla fondazione di un’Accademia, denominata non a caso Aldina, volta a promuovere lo studio dei classici e ad accogliere intellettuali e artisti esuli da Bisanzio.

Dopo la morte di Manuzio, la tipografia fu gestita dai familiari che ne continuarono l’attività sino alla fine del XVI secolo.

Maddalena Oldrizzi

Andrea Polati

La fortuna dell’opera

L’Hypnerotomachia Poliphili si distacca completamente dalle altre opere pubblicate da Aldo Manuzio sino al 1499, che rientrano in un progetto editoriale dedicato ai classici greci. L’alone di mistero che aleggia sull’opera ha contribuito a renderla ancora più affascinante.

Gli elementi di maggiore interesse risiedono nell’armonia tipografica dello specchio di stampa, nel raffinato corredo illustrativo, nel seducente ermetismo linguistico e delle ricche ed elaborate simbologie.

In Italia, il libro di Colonna non ha goduto di particolare successo: ristampato nel 1545 a Venezia, cadde nell’oblio fino al XVII/XVIII secolo.

In Francia la fortuna critica dell’Hypnerotomachia Poliphili è stata al contrario particolarmente vasta, poiché già dal 1546 si conoscono copie tradotte dell’opera: Hypnerotomachie, ou discours du songe de Poliphile, edizione curata da Jean Martin per Jacques Kerver e tradotta da Le Cal de Lenoncourt, mentre altre traduzioni e ristampe si sono succedute con regolarità fino al XIX secolo. La prima traduzione, nello specifico, avviene grazie ai dettami di Etienne Dolet, secondo cinque regole basilari date dallo stesso traduttore. Jean Martin segue quasi certamente i pilastri di Dolet, ma anche la versione francese è avvolta da un alone di mistero che non permette di avere certezze assolute riguardo la provenienza. Nel 1600 esce la seconda edizione francese della Songe du Poliphile: curata da Béroalde de Verville per l’editore parigino Matthieu Guillemot, questa versione è maggiormente esoterica rispetto alla prima, oltre che estremamente cabalistica: il frontespizio, ricco di simbologia, sembra essere un avvertimento rivolto a re Enrico IV° per evitarne l’omicidio. In questa edizione vengono mantenute le xilografie dal volume di Jean Martin. Dalla metà del XVI secolo le imitazioni delle xilografie si diffondono molto in Francia, soprattutto attraverso la tipografia di Lione di Guillaume Rouillé.

Una prima edizione inglese è documentata già nel 1592, l’Hypnerotomachia the Strife of Love in a Dreame con la traduzione di Richard Dallington, licenziata a Londra dallo stampatore Simon Waterson. In ambito inglese, l’Hypnerotomachia Poliphili tornerà in auge alla fine dell’Ottocento con una fitta serie di studi critici nel corso del secolo successivo. La prima edizione, in realtà, non viene tradotta completamente: Richard Dallington rende in lingua inglese circa 2/5 del testo, lasciando per molto tempo all’immaginazione del lettore britannico la conclusione del testo. Solo nel 1890 l’opera viene pubblicata totalmente in inglese.

Le xilografie, di autore sconosciuto anche in questo caso, vennero riadattate anche in Gran Bretagna basandosi sull’edizione aldina del 1499, ma risultarono delle reminiscenze degli originali più che una loro rilettura.

Maddalena Oldrizzi

Estetica della pagina

L’Hypnerotomachia Poliphili uscì dai torchi di Aldo Manuzio più di 500 anni fa, nel 1499. Esso appartiene dunque alla categoria degli incunaboli, ossia i libri stampati fino al 1501 con il torchio a caratteri mobili. Composto da 234 fogli numerati e da 172 splendide xilografie (incisioni su legno), rappresenta uno dei libri più famosi nella storia della tipografia mondiale e, quindi, tra i più ambiti dai bibliofili.

A un primo sguardo il libro ci appare stranamente familiare: un’impressione che è dovuta alla leggibilità del testo stampato. Infatti il carattere, la struttura della pagina e il modo in cui le parole sono disposte intorno alle figure seguono dei canoni tipografici a cui ormai siamo abituati. Eppure rispetto ad altri incunaboli (ad esempio la celebre Bibbia di Gutenberg), la sua modernità è addirittura disarmante. L’aspetto forse più evidente è l’assenza del carattere gotico – allora molto diffuso anche nei libri a stampa – mutuato dai codici manoscritti di epoca medievale. L’uso del carattere gotico aveva del resto consentito una transizione meno traumatica al libro stampato. Nell‘Hypnerotomachia esso invece scompare in favore di quello che è tuttora noto come Bembo, un carattere che prendeva a modello la scrittura degli umanisti italiani. Le sue linee armoniose ma essenziali seguivano le indicazioni di letterati e calligrafi famosi come Francesco Petrarca, Felice Feliciano, Poggio Bracciolini e Leon Battista Alberti, che intendevano ricreare la scrittura usata nell’antichità classica. Il carattere fu introdotto nel 1496 da Manuzio nel De Aetna di Pietro Bembo, da cui il nome, per essere perfezionato in occasione della stampa dell’Hypnerotomachia.

L’invenzione del carattere“romano” Aldino si deve a Nicholas Jenson, che lo sviluppò a partire dalla scrittura Antiqua, mentre le matrici dei singoli caratteri furono messe a punto da Francesco Biffi, un orafo bolognese che sarebbe diventato l’intagliatore favorito di Aldo. Nel carattere Bembo scomparvero i tratti di congiunzione tra le lettere che invece caratterizzavano la scrittura gotica, rendendolo più agevole alla lettura. Sotto l’aspetto tipografico l’Hypnerotomachia Poliphili rappresenta quindi, allo stesso tempo, un ritorno alla classicità romana e un’apertura notevole verso la modernità.

Un aspetto non secondario è costituito dalla struttura della pagina stampata, la cui estetica non è fine a se stessa, ma funzionale alla lettura del libro. Nell’Hypnerotomachia troviamo infatti una stretta integrazione fra il testo di riferimento l’immagine corrispondente, proponendo così una fusione semantica, oltre che visiva. Il tipografo ha inoltre giocato in modo molto originale con il testo, spesso disponendolo a forma di scudo o tazza, mentre non mancano casi in cui la giustificazione del testo segue le illustrazioni di contorno. Quanto appunto alle xilografie, esse sono talvolta disposte l’una accanto all’altra quasi a ottenere un effetto di racconto dinamico. In altre parole, l’Hypnerotomachia anticipa alcune soluzioni tecniche e visive che saranno adottate più avanti nel cinema o nei racconti a fumetti.

È quindi paradossale che un libro così leggibile, stampato con grande cura e ricco di soluzioni innovative sia in fin dei conti scritto in un linguaggio molto complesso. L’Hypnerotomachia Poliphili è infatti uno dei libri più illeggibili mai pubblicati. Le difficoltà partono dal titolo stesso, praticamente impronunciabile. La difficoltà aumenta sfogliando le pagine e cercando di decifrare il significato: oscuro, impenetrabile, a volte sconcertante, pieno di riferimenti reconditi e imbevuto di termini inconsueti, arcaici, reso ancor più complesso dalla prosa tortuosi, prolissi e pletorici. Il libro è uno strano miscuglio di lingue diverse – specialmente il volgare e il latino – che in alcuni casi richiedono le competenze di un esperto poliglotta. Una mescolanza che si osserva anche a livello tipografico, visto che sono impiegati caratteri greci, ebraici e, per la prima volta in un libro occidentale, anche caratteri arabi. Geroglifici egiziani e formule matematiche sembrano comporre infine degli enigmi, ma non costituiscono necessariamente dei rebus da risolvere.

Andrea Polati

L’autore delle xilografie: un altro mistero

Il libro illustrato diventa sempre più importante alla fine del XV° secolo, ricordando come massimi esempi il Liber Chronicarum di Schedel del 1493 e la serie dell’Apocalisse di Dürer del 1499.

Le edizioni di Aldo Manuzio in questi anni non lasciano invece ampio spazio alle illustrazioni, fatta eccezione per un’unica opera: l’Hypnerotomachia Poliphili. Considerato il volume illustrato per eccellenza del periodo Rinascimentale, l’Hypnerotomachia è anche uno degli esemplari più discussi della storia del libro in senso assoluto.

L’Hypnerotomachia è un romanzo allegorico in cui la parola scritta e l’immagine raffigurata si fondono in un unico grande linguaggio, amplificando l’elemento comunicativo: le immagini così eleganti e ieratiche, si sposano perfettamente con un registro linguistico non didascalico ma enigmatico. L’esemplare del 1499 è accompagnato sin dalla sua prima comparsa da ben 172 xilografie, che vanno a decorare il contenuto dell’opera stessa. Le ipotesi attributive delle immagini vedono una rosa ampia di nomi e collocazioni, ma quasi tutti gli studiosi tendono a concordare su un punto:

l’autore delle immagini deve aver lavorato a stretto contatto con Aldo Manuzio, non solo per le xilografie in sé, ma anche per gli spazi grafici, gli elementi tipografici, le cornici inserite.

Nonostante l’ipotesi presentata da Maurizio Calvesi, secondo cui l’autore delle immagini sarebbe di ambito romano (e nello specifico della cerchia di Pinturicchio), gli studiosi tendono invece ad identificare una netta matrice veneta nelle xilografie dell’Hypnerotomachia. Nello specifico, l’anonimo disegnatore dimostra di avere una naturalezza nella pratica che un incisore romano del tempo non poteva possedere, mentre nella zona lagunare e lombarda l’esperienza dei libri illustrati si era già diffusa ampiamente, elemento che giustificherebbe le maggiori capacità di un’artista del Nord Italia in questi anni. Tra gli intagliatori veneziani di fine ‘400 oggi conosciamo due nomi: Jacobus Argentoratensis, indicato dal monogramma “IA“, e Hieronymus de Sanctis; a questi due nomi si affiancano delle vere e proprie botteghe xilografiche, tra cui spicca quella del monogrammista “b“, fondamentale negli studi dell’Hypnerotomachia perché compare in due immagini dell’opera.

La mancanza di informazioni precise e il mistero che aleggia attorno all’opera non permettono di indicare un’unica personalità con certezza; sono invece emerse varie ipotesi, che qui ci limiteremo a presentare nelle accezioni considerate più veritiere e plausibili, che potenzialmente si possono accostare a quest’opera di inestimabile valore.

Benedetto Bordon 

Benedetto Bordon nasce a Padova attorno al 1445-1450 e muore a Padova nel 1530. Le prime miniature si datano attorno al 1477, eseguite per il commerciante di libri Peter Ugelheimer, attivo in quel periodo a Venezia con la collaborazione dello stampatore Jenson: ne Decretum gratiani e il Digestum novum di Giustiniano, Benedetto si firma come “Benedictus Patavinus”. Fino alla prima metà degli anni ’80 lavora accanto a Girolamo da Cremona e al Maestro delle Sette Virtù (fig.5), sulle cui immagini Bordon modella il proprio linguaggio artistico, riprendendo temi iconografici tendenti all’antico e aperture stilistiche che guardano anche al mondo ferrarese. Nel 1480 Benedetto è certamente a Padova, come testimonia l’atto di matrimonio, dove rimarrà fino al 1492. Dopodiché si sposta a Venezia, dove passa il resto della sua vita e fonda ad una bottega propria.

Benedetto Bordon viene identificato dai più come l’autore delle immagini dell’Hypnerotomachia Poliphili, stampata da Aldo Manuzio nel 1499. Bordon e Manuzio potrebbero essere entrati in contatto tra 1494 e 1495 attraverso il Monastero di S. Nicolò della Lattuga, o S. Nicolò dei Frari: Bordon viene chiamato ad eseguire una serie di antifonari; uno dei dodici frati abitanti in loco era Urbano Bolzanio (1443-1524) o Urbanus Bellunensis, uno dei collaboratori di Aldo Manuzio. Si pensa che le prime opere greche pubblicate da Manuzio tra 1494/95 possano essere state decorate in parte da Bordon, in particolare l’Erotemata di Kostantinos Laskaris (fig.6), in cui le lettere iniziali dei capitoli richiamano la decorazione floreale di altre opere decorate da Benedetto.

La prima opera pubblicata da Bordon a Venezia di Luciano oggi si trova conservata in una copia a Vienna: presenta delle xilografie in stretta affinità con quelle dell’Hypnerotomachia. Le immagini della prima opera decorata da Bordon a Venezia, I Dialoghi di Luciano, presentano la stessa impostazione inventiva e stilistica del volume edito da Manuzio.

L’opera di Luciano in realtà sarebbe collegata alla stessa Hypnerotomachia anche da un punto di vista tematico: la versione in questione, infatti, contiene anche una traduzione latina dal titolo Luciano carmina in amorem; più volte si è notato un’influenza di tale opera in quella mandata a stampa da Aldo Manuzio. Il legame tra Manuzio e Bordon sarebbe inoltre esemplificato anche da elementi che vanno oltre le xilografie: lo stile ricco di ombre, il layout particolarmente bilanciato, nonché le lettere iniziali estremamente simili tra l’Hypnerotomachia e le opere greche stampate da Manuzio.

Andrea Mantegna

Andrea Mantegna nasce attorno al 1430 a Isola di Carturo, a nord di Padova. Si forma nella bottega di Francesco Squarcione, a Padova, dove dal suo maestro assimila l’amore per l’antichità. La sua arte raggiunge livelli ancor più alti in seguito, grazie ai contatti con Giovanni Bellini, di cui sposa la sorella Nicosia. Mantegna è conosciuto ai più per la carriera pittorica, ma ciò che qui viene preso in considerazione è il percorso grafico dell’artista veneto: si impone infatti agli occhi dei suoi contemporanei attraverso 35 incisioni. È probabile, dallo stile delle incisioni e dei disegni, che Mantegna abbia iniziato ad incidere attorno agli anni ’60 del ‘400, grazie anche all’influenza di Antonio Pollaiolo. I due avrebbero potuto conoscersi a Firenze nel 1466: entrambi si impegnano nella tecnica incisoria, forse ritenendo che possa essere più remunerativa del semplice disegno.

Mantegna ben presto assume un incisore professionista per copiare e rendere con tale tecnica i suoi disegni precedenti.

Ciò che fece l’artista veneto va però oltre le convenzioni lavorative: egli costringe il suo lavoratore, Simone di Ardizzoni, a sfruttare il metodo incisorio secondo le necessità di un pittore, come se utilizzasse una penna per incidere. I soggetti di Mantegna nella maggior parte dei casi sono mossi da un incredibile senso scultoreo, derivante dal suo amore per l’antichità così come era accaduto in precedenza con Donatello, ed è per questo che nelle sue incisioni troviamo corpi dal forte senso geometrico, di solito reso da torsioni del corpo stesso e delle braccia rispetto al busto. L’idea che le xilografie dell’Hypnerotomachia Poliphili si possano legare alla figura di Andrea Mantegna è da collegare all’impostazione di alcune delle immagini dell’opera. In particolare, la somiglianza più netta ed evidente esiste tra una xilografia identificata come Polifilo inginocchiato davanti al trono della regina Eleuteryllide, e un affresco sempre di Mantegna padovano, S. Giacomo davanti ad Erode.

L’impostazione mantegnesca delle xilografie è evidente, sia per la creazione spaziale, sia per l’ampio utilizzo di elementi architettonici, ma per la maggior parte degli studiosi questa tipologia può essere stata assorbita dal misterioso autore delle immagini senza che questi sia necessariamente il famoso artista veneto in prima persona.

Benedetto Montagna 

Benedetto Cincani detto “il Montagna” nasce nel 1480 circa a Vicenza. Figlio del pittore Bartolomeo Montagna e di Paola Crescenzio, le prime notizie certe risalgono al 1504, quando diventa procuratore del padre: come lui, Benedetto diviene pittore, ma anche incisore. Collabora con Bartolomeo e alla sua morte, nel 1523, ne eredita la bottega a Vicenza.

Molto abile nel disegno, Benedetto Montagna creava scene molto austere e grandiose, con un taglio molto pesante e un disegno poco delicato.

Tra gli artisti veneti Montagna è forse quello maggiormente influenzato dalle opere di Albrecht Dürer ma, a differenza dell’artista tedesco, le sue prime stampe mancano di grazia. Il primo periodo di fase incisoria è caratterizzato da una tecnica basilare costituita da linee parallele e incrociate con intenzione plastica. Nelle stampe della fase successiva, invece, prende il sopravvento una forte sensibilità atmosferica, perdendo l’incisività del periodo precedente e seguendo una linea maggiormente pittorica.

Il legame che, secondo alcuni studiosi, si viene a creare tra Montagna e l’Hypnerotomachia è anche collegato ad ulteriori opere.

Nel 1509 a Venezia viene dato a stampa una versione delle Metamorfosi di Ovidio, di cui esistono sedici incisioni lignee in folio escluse dalla versione finale. Alcune di queste incisioni sarebbero da attribuire a Benedetto Montagna: secondo alcune analisi, tali immagini sarebbero incredibilmente somiglianti alle xilografie dell’Hypnerotomachia. A questa, che viene considerata una forte prova, si aggiunga che tra le incisioni dell’Hypnerotomachia troviamo due produzioni in cui compaiono le lettere “B.M.“, possibile firma di Benedetto Montagna.

L’ipotesi più veritiera, in base all’osservazione delle immagini, è che il monogrammista “ia“, autore della maggior parte delle immagini delle Metamorfosi stampate nel 1509 sia lo stesso autore della maggior parte delle xilografie dell’Hypnerotomachia: questo permette di comprendere che, potenzialmente, l’autore delle immagini dell’opera era sicuramente attivo in ambito veneziano all’inizio del XVI secolo; questi lavora ad altre opere, quindi l’Hypnerotomachia non si può considerare come un unicum nella sua produzione e che, probabilmente, era legato all’attività di una bottega.

Inoltre, si può infine aggiungere che il monogrammista “b” è probabile sia un collaboratore del primo monogrammista “ia”, avvalorando quindi l’idea dello sviluppo di un atelier.

Maddalena Oldrizzi

Di mano in mano: Dal Cinquecento ad oggi

L’esemplare dell’Hypnerotomachia Poliphili esposto in mostra vanta certamente un pedegree di tutto rispetto. La prima significativa attestazione di possesso del volume è rappresentata da una serie di iscrizioni a penna apposte ai margini di alcune pagine del libro. Si tratta, in particolare, di brevi appunti che riassumono il contenuto degli episodi narrati a fianco. L’autore è un anonimo lettore italiano del Cinquecento, al quale forse si deve anche la bella legatura in piena pergamena con cui è confezionato il libro.

Una serie di interessanti ex-libris riportati sul contropiatto anteriore si legano ai collezionisti che hanno voluto orgogliosamente associare i loro nomi a quello del prezioso incunabolo. Il primo che si conosca è nientemeno che David Garrick (1717-1779), il più importante attore inglese del Settecento, oltre che drammaturgo, poeta e impresario teatrale. Garrick, ritratto anche da Thomas Gainsborough, esercitò una grande influenza sul teatro inglese del XVIII secolo. Proprietario di una grande biblioteca, i suoi libri sono contrassegnati da un tipico ex-libris parlante, che rievoca il suo mestiere. Dal testamento di David (1779), sappiamo che la sua biblioteca, che comprendeva l’Hyperotomachia Polihili, passò in eredità a uno dei nipoti, il reverendo Carrington, primogenito del fratello George. Il suo ex-libris, incollato vicino a quello dello zio, è caratterizzato da un più classico scudo araldico, che riporta le insegne della famiglia Garrick. Il reverendo Carrington morì prematuramente a 34 anni e i suoi libri furono messi all’asta il 6 giugno 1787.

Da quel momento non si hanno più notizie del libro di Manuzio, finché dopo un secolo esso ricomparve nella biblioteca dell’inglese George Dunn (1865-1912) di Woolley Hall vicino a Maidenhead, nel Berkshire, come registra puntualmente il suo elegante ex-libris. Bibliofilo, appassionato di paleografia e degli albori della stampa, durante la sua vita formò una formidabile biblioteca in Woolley Hall, che comprendeva antichi testi giuridici inglesi, manoscritti medievali e incunaboli, tra cui appunto l’esemplare in mostra dell’Hypnerotomachia. La sua passione per i libri comprendeva anche le legature, che fu uno dei primi a studiare e a conservarle.

Dopo la scomparsa di Gerge Dunn, avvenuta nel 1912, la sua biblioteca fu smembrata per essere poi venduta all’asta a Sotheby’s, che tra il 1913 e il 1917 realizzò più di 30 mila sterline. Fu forse in quell’occasione che il libro passò nelle mani di Estelle Doheny (1875-1958), una delle prime collezioniste di libri degli Stati Uniti d’America. Di umili origini, il suo matrimonio con il ricco magnate Edward L. Doheny le consentì di accedere a enormi risorse economiche, che impiegò in opere di filantropia a Los Angeles e nel collezionismo librario, attività che le permise di formare una celebre biblioteca. Un glaucoma, che causò a Mrs. Doheny la perdita della vista, la portò a fondare il Doheny Eye Institute, uno dei più importanti centri di ricerca e di cura al mondo delle malattie della vista. Come bibliofila, ella dimostrò un interesse particolare per la Bibbia, di cui possedette la rarissima edizione stampata da Gutemberg tra 1453 e 1455.

Nel 1987, a 25 anni dalla morte della proprietaria, una parte dei volumi di Mrs Doheny – tutti contraddistinti da un ex-libris ovale con scritte e filettature dorate – fu presentata da Christie’s, spuntando all’asta la notevole somma di 38 milioni di dollari. Il volume dell’Hyperotomachia giunse quindi nella mani di Corrado Mingardi, come dimostra il suo originale ex-libris. Storico bibliotecario di Busseto, Mingardi è uno dei maggiori esperti di Giuseppe Verdi, sul quale ha scritto diverse pubblicazioni. La sua passione per i libri lo ha portato a costituire una collezione libraria di grande valore, specializzata in edizioni antiche ma sopratutto in libri d’artista del XX secolo.

Andrea Polati

La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso con tavole di Giambattista Piazzetta

Il contesto culturale: l’editoria a Venezia a metà del Settecento
Venezia, vera e propria capitale del libro a stampa per gran parte del Cinquecento, aveva assistito al progressivo declino del suo mercato editoriale a partire dal 1596, quando l’emanazione dell’Indice Clementino, elenco di letture proibite stilato dalla Chiesa in seguito al concilio di Trento, provocò il collasso del settore librario, con la chiusura di oltre 80 torchi e l’inevitabile crollo della quantità e della qualità dei volumi stampati. Il XVII secolo, contraddistinto da un rapido sviluppo della produzione incisoria soprattutto nei grandi centri dell’Europa Settentrionale, vide gli artigiani nordeuropei raggiungere una precisione tecnica tanto elevata da divenire un punto di riferimento.
Solo dai primi anni venti del Settecento, infatti, i veneziani poterono tornare a godere di un fervido clima culturale, rianimatosi grazie alle attività di una élite intellettuale, che aveva promosso lo sviluppo di circoli da cui scaturiva un nuovo interesse per le tematiche erudite più eterogenee in linea con le tendenze europee. Le nuove esigenze culturali portarono in breve tempo ad una crescita esponenziale dell’artigianato editoriale dovuta non tanto all’apertura di nuovi torchi da stampa, che nel 1773 erano solamente 70 rispetto ai 150 di metà Cinquecento, quanto all’incremento della qualità delle pubblicazioni; non a caso, il periodo intercorso tra il 1735 e il 1750 fu segnato da un’incessante evoluzione dell’industria libraria con l’affermazione di numerose collaborazioni tra editori colti e artisti. La forte identità culturale di alcune città del Veneto favorì, inoltre, una certa specializzazione dei centri urbani più progrediti: se Venezia deteneva il primato sulle pubblicazioni relative alla storia della Chiesa, Verona primeggiava negli studi archeologici e di antichistica, mentre a Padova proliferavano i trattati di storia e linguistica. Anche se già alcuni istituti, come quello del Privilegio esclusivo, attivo a Venezia dal 1603, tutelavano l’editore dalla concorrenza, il vero rinnovamento fu sancito dalle nuove leggi imposte dalla Repubblica sulla compravendita dei prodotti. Ogni libraio veneziano infatti era tenuto a commercializzare tutti i libri stampati dalla Repubblica a prezzi calmierati, principio che permetteva ai clienti e ai colleghi un più facile reperimento dei titoli ed eliminava il problema della concorrenza sleale. Per quanto riguarda invece l’avvio della produzione, alcuni avveduti editori percorsero la via della sottoscrizione, lanciando il proprio progetto attraverso un manifesto di partecipazione che assicurava un consistente sconto sui volumi a coloro che si sarebbero impegnati ad acquistarne una copia. Per questa ragione non è insolito identificare, specialmente nei libri di maggior pregio, le dediche ai personaggi illustri e influenti che avevano aderito alla sottoscrizione, offrendo il proprio patronato agli editori che non potevano contare esclusivamente sui propri capitali. È proprio in questo momento storico dunque che si definisce per la prima volta la figura dell’editore moderno, un libraio che, assumendosi il rischio d’impresa, si avvaleva del supporto di diverse professionalità per realizzare il proprio progetto editoriale, con l’intento di tenere ben distinte la fase produttiva da quella commerciale.

Il rapporto tra editore e artista: la collaborazione tra G.B. Albrizzi
e G.B. Piazzetta

Nel novero degli editori che contribuirono alla riaffermazione dell’industria libraria a Venezia nella prima metà del Settecento, si distinse Giambattista Albrizzi che, in un contesto di agguerrita concorrenza, riuscì a ritagliarsi un ruolo chiave nello sviluppo di un mercato ancora in forte crescita. Discendente da una dinastia di tipografi e librai di grande prestigio e provvisto di spiccate capacità gestionali, egli portò avanti la tradizione artigiana familiare contribuendo a mantenere l’impresa in attività per quasi un secolo e mezzo. Il fondatore, Girolamo Albrizzi, era nato a Venezia nel 1662 e fino al 1713 si era contraddistinto non solo per l’innato spirito imprenditoriale, ma soprattutto per il gusto raffinato che caratterizzava ogni prodotto realizzato dalla sua bottega. Alla morte di Girolamo l’attività fu suddivisa tra i due figli maschi che intrapresero strade completamente diverse: Almorò, il più ambizioso, fondò una società letteraria, scelta che gli attirò aspre critiche da parte dell’élite culturale veneziana; Giambattista invece, più prudente e avveduto, proseguì il mestiere del padre nella gestione della tipografia di famiglia, già ben avviata. Egli si impegnò a realizzare volumi capaci di distinguersi sul mercato per una nuova veste formale, sempre più artistica e raffinata, impegno che gli permise di sviluppare un proficuo rapporto con Giambattista Piazzetta, pittore già affermato nella Serenissima. L’artista infatti, con ardimentosa inventiva, realizzò tutte le tavole dei primi otto volumi e le testate e i finalini dei primi sei delle Oeuvres di Bossuet, stampate tra il 1736 e il 1757. Il vero apice della collaborazione fu raggiunto però solo nel 1745, con la pubblicazione della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, in cui il tono più malinconico delle immagini delle Oeuvres lasciò spazio ad un vivace apparato grafico, derivante da un brillante lavoro di squadra coordinato dall’editore. Ma la lungimiranza di Albrizzi si manifestò anche vent’anni più tardi quando il grande successo riscosso dal volume, nonostante il costo proibitivo di otto zecchini d’oro, portò l’editore a stampare un album che, per sole 20 lire, raccoglieva tutte le incisioni della Gerusalemme liberata: intervento che giustifica l’ampia diffusione delle stampe dell’artista anche dopo la sua morte. Un’intesa professionale dalla quale scaturirono più di 60 disegni di Piazzetta per l’editore e che favorì la nascita di una sincera amicizia tra i due, testimoniata dall’illustrazione di chiusura della Gerusalemme liberata, nella quale ambedue sono raffigurati intenti a discutere, immersi in un paesaggio rurale. La felice collaborazione terminò solo con la morte dell’artista, avvenuta nel 1754, che venne commemorata dall’amico con la pubblicazione degli Studj di pittura, ossia la riproduzione di 24 tavole di Piazzetta corredate da un manuale propedeutico per l’avvicinamento dei giovani alla pittura. Quest’opera celebrativa non era solo destinata agli studenti che si apprestavano a imparare l’arte del disegno, ma a tutti gli amanti dell’arte che avrebbero potuto onorare la memoria del maestro conservando alcuni dei suoi saggi grafici più significativi e originali.

Giambattista Piazzetta
Nato a Venezia nel 1682, Giambattista Piazzetta è considerato uno dei massimi esponenti della corrente dei cosiddetti tenebrosi la cui poetica, diffusa in laguna dal napoletano Luca Giordano a metà del Seicento, si manifestava attraverso un’intensa drammaticità emozionale e un forte incupimento dei toni in favore di un maggior rigore dei contrasti di luce e d’ombra. Allievo di Antonio Molinari a Venezia, nel 1704, alla morte del maestro, il giovane artista si reca a Bologna dove, nel tentativo di sviluppare quanto appreso durante la prima formazione, studia la pittura dall’accentuato cromatismo di Giuseppe Maria Crespi, sviluppando un linguaggio pittorico a macchia nel quale gli infuocati giochi chiaroscurali si fondono con un cupo realismo di matrice popolare. Non avendo notizie certe sulla durata degli spostamenti del pittore, si fissa come spartiacque nella carriera dell’artista l’anno 1711, quando viene ufficialmente registrata la sua iscrizione alla Fraglia dei pittori veneziani. Nonostante il rientro a Venezia nel pieno della stagione del revival veronesiano, che raggiunge il culmine ai primi del Settecento grazie alle opere di Sebastiano Ricci, persistono nella pittura di Piazzetta, almeno fino alla fine degli anni venti, infocate intonazioni coloristiche e un intenso chiaroscuro. Solamente dai primi anni trenta del Settecento l’artista, avvicinandosi alla corposità pittorica dei grandi maestri del primo Seicento, inizia a schiarire toni e atmosfere, mantenendo tuttavia i forti contrasti di luce e di ombre che rendono vibrante il colore nelle sbavature delle forme e irrompono, negli anni della piena maturità, in un pittura che si forgia nella luce.
Nel percorso di attenuazione del proprio rigore chiaroscurale le soluzioni pittoriche di grandi maestri come Domenico Fetti e Johann Liss sono il punto di partenza per Piazzetta. Il progressivo diminuire della produzione di opere religiose dei primi anni quaranta agevola l’apertura verso nuove tematiche agresti e bucoliche, caratterizzate da una luminosità fiabesca che irradia i contadini e le giovani popolane, divenuti progressivamente i soli protagonisti dei dipinti dell’artista. Saranno proprio questi soggetti a diventare rappresentativi nella produzione di libri istoriati della Venezia settecentesca, comparsi per la prima volta nelle Oeuvres di Bousset, edite da Albrizzi nel 1736 con la collaborazione di Piazzetta.
L’impetuoso temperamento creativo di Piazzetta non è verificabile solamente in pittura, ma anche nelle sorprendenti incisioni che corredano i volumi delle Oeuvres e della Gerusalemme liberata, realizzate su disegno dell’artista, il quale li elabora con un’attenzione spasmodica che si riflette nei numerosi album di disegni conservati a Torino, San Pietroburgo e New York. All’inizio del quinto decennio del Settecento, con l’incremento della produzione grafica, si verifica però una sorta di frenata nella produzione dell’artista e le sue opere pittoriche sono investite da un’acuta crisi. Nel 1750, Piazzetta viene incaricato della direzione della Pubblica Accademia di Pittura e Scultura costituita dalla Serenissima, un impegno ed un ruolo che provocano l’inaridirsi della sua peculiare poetica giovanile a favore di un più accentuato accademismo. La stanchezza manifesta delle composizioni delle ultime opere non intralcia però lo sviluppo di un nuovo interesse per le tematiche storiche, divenute caratteristiche proprio di questo ultimo periodo di attività, nonostante la presenza di cospicui interventi della bottega.

Le edizioni della Gerusalemme liberata
La controversa vicenda delle edizioni della Gerusalemme liberata ha indotto la critica ad elaborare diverse ipotesi sull’originale progetto albrizziano che, ancora oggi, non hanno trovato esito in un’univoca interpretazione. Nel tentativo di classificarne le vesti editoriali, gli studiosi sono giunti a una chiara suddivisione degli aspetti caratterizzanti di due tipologie:

Edizione A:

a) Incisione raffigurante Maria Teresa anziana
b) Superficie più ampia delle 20 grandi tavole rispetto all’edizione B
c) Versi di introduzione alla base delle tavole
d) Incisioni “libere” senza decorazioni e cornici

Edizione B:

a) Incisione raffigurante Maria Teresa giovane
b) Varie differenze nelle tavole rispetto all’edizione A
c) Dediche e stemmi dei sottoscrittori alla base delle tavole
d) Testate e finalini poggianti su mensole in stile rococò

Nonostante alcuni esemplari noti corrispondano fedelmente a questa classificazione, esistono numerosi casi che presentano ulteriori variazioni d’impostazione, come nel caso del libro attualmente in esposizione proveniente dalla collezione Corrado Mingardi. Questa copia infatti, pur aderendo alle caratteristiche formali dell’edizione B, si apre con l’incisione raffigurante Maria Teresa anziana. Anche se spesso la critica ha tentato di riconoscere, nell’una o nell’altra edizione, possibili elementi di contraffazione, è ormai accertato che Albrizzi nel 1743, prevedendo il successo che l’uscita della Gerusalemme liberata avrebbe riscosso, aveva ideato due edizioni diversificate. Questa decisione gli permise di scongiurare eventuali concorrenze sleali di altri editori che, resisi conto di quanto potesse essere redditizio copiare il volume, avrebbero potuto concepire una seconda edizione da immettere nel mercato prima che Albrizzi fosse riuscito a soddisfare tutte le richieste dei suoi lettori. Inoltre le incisioni della Gerusalemme liberata conservate all’Albertina di Vienna presentano diverse correzioni con gessetto nero, riconosciute come autografe del Piazzetta, modifiche poi ravvisabili nelle incisioni dell’edizione B che, non solo attesterebbero una revisione dei primi disegni da parte del maestro su probabile richiesta dell’editore, ma confermerebbero l’autenticità dell’ideazione di tutte le stampe, nonostante sia acclarato uno scarto qualitativo tra le due serie.
Non è dunque possibile stabilire in modo certo quale tipologia sia da considerarsi la prima vera edizione albrizziana, ma è importante ribadire l’esistenza di plurime edizioni, spesso ibridi delle tipologie A e B, che dimostrano ancora una volta quanto fervore avesse procurato negli acquirenti l’idea di possedere una copia della Gerusalemme liberata illustrata dal Piazzetta, ancor prima della sua pubblicazione.

5. L’edizione albrizziana della Gerusalemme liberata
Durante il suo soggiorno veneziano del 1740, Johann Caspar Goethe, trovandosi nella calca delle Mercerie che tra San Marco e Rialto ospitavano all’epoca gran parte delle botteghe librarie, ebbe la fortuna di vedere, tra i primi, alcune illustrazioni a stampa per la nuova edizione della Gerusalemme liberata, che Giambattista Albrizzi esibiva in anteprima con gran compiacimento.
Il progetto di realizzare un volume istoriato dell’opera di Torquato Tasso, che l’editore non esitava a designare ancor prima della pubblicazione come il suo massimo capolavoro, era probabilmente già stato concepito qualche anno prima, dopo la prima collaborazione con Giambattista Piazzetta per le Oeuvres di Bossuet. L’apparato illustrativo della Gerusalemme liberata, stampata nel 1745, è costituito da una cospicua serie di illustrazioni tra cui una complessa antiporta, raffigurante una scena allegorica di celebrazione della poesia e dell’ispirazione artistica, una tavola con il ritratto a figura intera di Maria Teresa d’Austria, alla quale il volume è dedicato, venti grandi tavole che illustrano le vicende narrate nel poema e sessantadue piccole incisioni tra capilettera, testate e finalini in apertura e chiusura dei venti canti. Tra le piccole scene, la più originale rimane senza dubbio quella che, in chiusura del volume, suggella e celebra la proficua collaborazione tra Piazzetta e Albrizzi, ritratti insieme in un arioso paesaggio agreste che si conforma all’atmosfera bucolica che si ritrova in tutti i finalini. È da notare inoltre la presenza dello stemma dei sottoscrittori dell’edizione ai piedi di ogni tavola, corredato di una breve dedica encomiastica a ringraziamento di coloro che, grazie al proprio contributo economico, avevano reso possibile la pubblicazione del libro. Anche se la critica ha diffusamente riconosciuto l’eccezionalità delle incisioni, soprattutto sul piano ideativo, non è possibile riconoscere la medesima originalità nell’impaginato e nella veste editoriale, un dato di fatto che crea grande disparità tra le valutazioni degli storici dell’arte, che lo ritengono il più bel libro istoriato del Settecento, e degli storici del libro, che ne sviscerano le criticità tipografiche. Tuttavia, si può affermare con certezza che la Gerusalemme liberata edita da Giambattista Albrizzi diviene un punto di riferimento nel panorama del mercato librario del Settecento sia in considerazione dell’originalità dell’apparato illustrativo, sia del vastissimo successo riscosso dalle numerose edizioni. Dal confronto con alcune versioni precedenti della stessa opera, in particolare con la celebre edizione genovese del 1671 illustrata da Bernardo Castello, è possibile osservare come Piazzetta, nell’ideare le illustrazioni, abbia in parte accantonato l’originale veste religioso-eroica del poema, informata ai principi della Controriforma, concentrandosi su una lettura più sentimentale e patetica della vicenda. Molto originale risulta anche la scelta degli episodi da illustrare, che non sembra seguire logiche di emulazione ma, al contrario, la chiara volontà dell’artista di emanciparsi dalle scelte dei suoi predecessori. I soggetti selezionati spostano infatti l’interesse del lettore dal motivo epico-cavalleresco a quello amoroso, ponendo l’accento, nello svolgersi del complesso intreccio, sui sentimenti dei personaggi che, per Piazzetta, diventano il vero motore della trama, in linea con le correnti artistiche e letterarie più in voga del Settecento.

La trama del poema
La vicenda si svolge nel corso della prima crociata, indetta da papa Urbano II nel 1095 nel tentativo di salvare la Chiesa d’Oriente e la città santa di Gerusalemme dagli oppressori turchi.
Il condottiero cristiano Goffredo di Buglione, in seguito all’apparizione dell’arcangelo Gabriele, esorta i suoi compagni a riprendere le forze per portare a termine la crociata e liberare il Santo Sepolcro dall’assedio nemico. Accolto il messaggio divino e designato Goffredo come capitano della spedizione, l’esercito giunge alle porte di Gerusalemme dove il re Aladino sta coordinando la sua armata per la difesa della città. Iniziato l’assedio, Satana invia in aiuto dei mussulmani i demoni e la maga Armida che, recandosi nell’accampamento cristiano, ammalia i guerrieri al fine di rapirli e imprigionarli nel suo castello. Nei due schieramenti si distinguono fin da subito i due eroi turchi, Argante e Clorinda, e i due cristiani, Tancredi e Rinaldo. Nel frattempo il furto di un’icona della Vergine, che re Aladino aveva fatto sottrarre al nemico e collocare, con spirito blasfemo, in una moschea, provoca l’ira del sovrano turco che decide di trucidare la popolazione cristiana. La giovane Sofronia, allo scopo di salvare il proprio popolo, si consegna ad Aladino accusandosi del furto; Olindo, il suo amato, si denuncia a sua volta per salvarle la vita: condannati al rogo, vengono entrambi salvati da Clorinda, appena in tempo per scampare alla morte. Lo scontro fra turchi e cristiani imperversa fuori dalle mura della città santa: mentre Rinaldo rimane prigioniero di Armida, Argante sfida a duello Tancredi, di cui è innamorata Erminia, principessa di Gerusalemme. Ella, scorgendo l’amato ferito durante lo scontro sul campo di battaglia, decide di indossare l’armatura di Clorinda per correre in suo soccorso ma, dopo essere stata smascherata, è costretta ad allontanarsi dalla battaglia. Tancredi però, ingannato dal travestimento, la insegue fuori dal campo fino a quando non si imbatte nella maga Armida che lo cattura, facendo anch’egli prigioniero. A questo punto, l’assenza dei due eroi cristiani e il ritardo dei rinforzi inviati dal re Sveno gettano l’esercito in un profondo sconforto dal quale si rinfranca soltanto grazie alla fede di Goffredo e all’aiuto divino. Compiuta una processione sul Monte Oliveto, i cristiani si scagliano contro le mura della città con una torre mobile, ma l’assalto viene interrotto dal calare della notte. Argante e Clorinda riescono a incendiare la torre, ma Clorinda, sfidata a duello da Tancredi che non l’aveva riconosciuta a causa del travestimento, muore tra le braccia dell’innamorato dopo aver espresso il desiderio di essere battezzata. Per bloccare i rifornimenti di legna all’esercito cristiano, Ismeno getta un incantesimo sulla foresta di Saron: è Dio – apparso in sogno a Goffredo – a indicare Tancredi come l’unico capace di rompere la magia. Quest’ultimo, liberato dalle braccia di Armida dai cavalieri Carlo e Ubaldo, torna a Gerusalemme e spezza l’incantesimo, dando il via alla battaglia finale. Il duello tra Argante e Tancredi questa volta vede la morte dell’eroe moro, permettendo così la vittoria dell’esercito cristiano.
Goffredo, nonostante l’intervento dell’esercito egizio, entra così a Gerusalemme e vi pianta la bandiera crociata che segna la vittoria sul mondo mussulmano.

Gli incisori
Se la questione dell’ideazione delle illustrazioni per la Gerusalemme liberata è ben documentata dai numerosi album di disegni di Giambattista Piazzetta giunti fino ai giorni nostri, molto più controverso è il caso del riconoscimento degli incisori che avevano lavorato con il pittore durante tutto il processo di stampa.
Anche se è acclarato che l’artista operava sempre a stretto contatto con i suoi esecutori, al fine di ottenere risultati di altissima qualità, essi rimangono perlopiù sconosciuti. La critica non è affatto concorde riguardo l’identificazione di un unico autore per la realizzazione di tutte le incisioni, nonostante gli ultimi studi abbiano cercato di convergere sulla figura di Martin Schedl (1677-1748), eccetto per il ritratto di Maria Teresa, firmato invece da Felice Polanzani. Ad avvalorare questa ipotesi contribuisce la serie di prove di stampa conservate presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe del Museo di Castelvecchio sulle quali è presente la firma Schedl sc, riscontrabile anche nella testatina del canto settimo dell’esemplare in esposizione. Gli specialisti, negli anni, hanno accostato al nome di Schedl altri intagliatori attivi a Venezia nella prima metà del Settecento e in contatto con Giambattista Albrizzi, come Giovanni Cattini, Marco Pitteri e Francesco Bortolozzi, con i quali però non è attestata alcuna collaborazione connessa alla realizzazione della Gerusalemme liberata. Al sostegno di questa ipotesi contribuisce la discussa disomogeneità qualitativa delle tavole antistanti i venti canti in cui, vagliando diverse edizioni, si rileva una diversa tipologia di incisione. Una delle ipotesi più plausibili è dunque che, considerati il grande successo del libro e la mole di richieste da parte del pubblico, i rami originali delle tavole si siano presto logorati a causa della cospicua produzione e siano stati ad un certo punto sostituiti con nuovi intagli realizzati da altri incisori reclutati dall’editore per affiancare Schedl, o addirittura sostituirlo in seguito alla sua morte. Queste differenze piuttosto evidenti degli apparati illustrativi portano a pensare che il progetto di pubblicazione fosse in continuo sviluppo a seconda delle richieste degli acquirenti, ipotesi sostenuta dalla documentata esistenza di più edizioni del volume, a discapito delle due varianti A e B classificate dalla critica, di cui non è possibile stabilire con certezza la sequenza temporale.

Giulia Adami