Aldo Manuzio e l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna
Francesco Colonna 1499 XilografieL’autore dell’opera: un mistero insoluto
Il nome dell’autore del testo dell’Hypnerotomachia Poliphili non compare in modo esplicito nel frontespizio, né in altre parti del volume, e nel corso dei secoli l’opera è stata attribuita a numerosi autori, tra i quali si ricordano Lorenzo il Magnifico, Giovanni Pico della Mirandola e lo stesso Manuzio.
La paternità dell’opera è stata unanimemente riconosciuta ad un Francesco Colonna, il cui nome si ricava dalle lettere iniziali di ogni capitolo del volume, che vanno a comporre il lungo acrostico: “Poliam frater Franciscus Columna peramavit“, traducibile come “Frate Francesco Colonna amò intensamente Polia”, protagonista femminile dell’opera.
Resta invece ancora aperta la questione relativa all’identificazione esatta di Francesco Colonna. Secondo l’ipotesi più nota, basata su un’annotazione del 1512 di Apostolo Zeno, si tratterebbe di un frate domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo, sul quale si hanno poche e lacunose informazioni. Nato a Venezia verso il 1433, viene menzionato tra i sacerdoti del convento veneziano in un documento del 1472. Nel 1477 venne misteriosamente espulso da Venezia, per poi esservi riammesso alcuni anni dopo. Rientrato in Laguna, nel 1493 divenne predicatore a San Marco e nel 1495-1496 ottenne l’incarico di priore; inoltre fu sindaco della Scuola di San Marco e sacrista della chiesa del suo convento, dove morì nel 1527.
Secondo un’altra ipotesi, proposta qualche anno fa dallo storico dell’arte Maurizio Calvesi, l’autore del testo potrebbe essere un componente della nobile famiglia Colonna di Roma, riconoscendolo nel Francesco Colonna signore di Palestrina e “frater”, cioè membro, dell’Accademia Romana di Pomponio Leto. Tale interpretazione comprende anche la rilettura di alcune ambientazioni ed episodi descritti nel testo, che farebbero riferimento a luoghi precisi e a fatti storici legati ai feudi di Preneste, l’antica Palestrina. Infine, Calvesi suggeriva la possibilità di un diretto legame tra Colonna e Manuzio, giustificabile considerando le origini laziali dello stampatore.
Maddalena Oldrizzi
La storia di Polia e Polifilo
L’Hypnerotomachia Poliphili (La battaglia d’amore in sogno di Polifilo) è il primo libro a stampa illustrato della storia, poiché il testo, impaginato con eleganza e ed equilibrio, è accompagnato da 172 xilografie ossia immagini incise su lastre di legno.
Edita nel 1499 dalla tipografia veneziana di Aldo Manuzio, l’opera ha come tema centrale l’amore platonico, rappresentato dalla ricerca da parte di Polifilo (letteralmente “colui che ama molte cose”) della donna amata, Polia (letteralmente “moltitudine”). Polifilo intraprende, in sogno, un vero e proprio viaggio onirico di iniziazione, raccontato in prima persona, che lo porterà ad affrontare difficili prove, ad attraversare luoghi impervi e a incontrare creature mostruose, figure mitologiche e allegoriche. Ma il protagonista si sveglia in un secondo sogno, all’interno del primo, in cui alcune ninfe lo conducono dalla loro regina e gli chiedono di dichiarare il suo amore per Polia, indi lo conducono davanti a tre porte. Polifilo sceglie la terza e lì trova Polia. I due sono condotti da altre ninfe in un tempio per la cerimonia del fidanzamento e lungo la strada passano attraverso cinque processioni trionfali che celebrano l’unione degli amanti. Finalmente la giovane coppia viene trasportata da una nave condotta dal dio dell’amore, Cupido, sull’isola di Citera, dove assistono ad un’altra processione trionfale che celebra la loro unione. A questo punto del romanzo si inserisce una seconda voce, quella di Polia, che descrive l’erotomachia dal suo punto di vista. Il racconto ritorna nelle parole di Polifilo quando viene respinto da Polia, ma Cupido le appare in sogno e la costringe a tornare dall’amato, che appare svenuto, come morto, ai suoi piedi, e a riportarlo in vita con un bacio. Gli amanti finalmente riuniti vengono benedetti da Venere, ma quando Polifilo sta per prendere Polia tra le sue braccia, ella si dissolve nell’aria e Polifilo si sveglia.
Il significato reale del racconto è incredibilmente difficile da interpretare, anche a causa delle citazioni e dei continui richiami a miti e leggende greche e latine. Il linguaggio usato dall’autore è altrettanto complesso e intreccia italiano e latino, con inclusione di eruditi termini greci che contribuiscono ad impreziosirne il lessico e ad aumentarne la problematicità semantica. Le parole scritte si mescolano alle originali immagini grafiche che creano un mondo fantastico e affascinante, di cui l’osservatore entra a far parte. Non da ultimo, Aldo Manuzio ha arricchito il volume inventando impaginazioni dalle strutture innovative, in cui il testo non rispetta una composizione tradizionale che assecondi la sagoma rettangolare del foglio, ma viene modellato secondo linee e schemi mai visti prima tra le pagine di un libro.
L’opera va quindi interpretata e ammirata nella sua interezza, prendendo atto che i suoi elementi di fascino derivano anche dal rapporto e dalla compenetrazione tra immagini, testo nell’impaginazione, che da vita ad una vera e propria fusione lessicale e visiva.
Maddalena Oldrizzi
Andrea Polati
Aldo Manuzio
Aldo Manuzio (1449/1452 – 1515) rappresenta una delle più affascinanti figure di umanista e stampatore della Venezia rinascimentale.
Nato a Bassiano (nei pressi di Latina) verso la metà del Quattrocento, compì studi umanistici e scientifici a Roma e a Ferrara, divenne tutore dei principi di Carpi, Alberto e Lionello Pio, per poi trasferirsi a Venezia, dove presumibilmente continuò a insegnare e a occuparsi di filologia e linguistica. La svolta nella sua carriera avvenne però nel 1494, quando aprì una propria stamperia in contrada di Sant’Agostin, specializzata nella pubblicazione di testi di autori contemporanei e di opere letterarie e filosofiche in lingua greca e latina.
Il motto della stamperia, “Festina lente” (affrettati con lentezza), sembra derivare da una moneta romana con l’effige di Tito Vespasiano: comparve per la prima volta in greco nella dedica delle opere di Poliziano a Sanuto del 1498, mentre l’emblema con il delfino che si stringe intorno al fusto di un’ancora venne introdotto nel 1502, diventando il logo delle opere stampate da Manuzio. L’immagine, già presente in una delle illustrazioni dell’Hypnerotomachia Poliphili del 1499, si adattava perfettamente al motto scelto qualche anno prima, in quanto il delfino era considerato simbolo della velocità, mentre l’ancora rappresentava la saldezza e l’immobilità.
Dal 1500 Aldo Manuzio diede vita ad una collana di libri di piccole dimensioni e a prezzo contenuto, stampati per la prima volta con caratteri corsivi, detti aldini, ispirati alle lettere dei testi originali ellenici. L’attenzione rivolta da Manuzio al mondo letterario e culturale greco è confermato anche dalla fondazione di un’Accademia, denominata non a caso Aldina, volta a promuovere lo studio dei classici e ad accogliere intellettuali e artisti esuli da Bisanzio.
Dopo la morte di Manuzio, la tipografia fu gestita dai familiari che ne continuarono l’attività sino alla fine del XVI secolo.
Maddalena Oldrizzi
Andrea Polati
La fortuna dell’opera
L’Hypnerotomachia Poliphili si distacca completamente dalle altre opere pubblicate da Aldo Manuzio sino al 1499, che rientrano in un progetto editoriale dedicato ai classici greci. L’alone di mistero che aleggia sull’opera ha contribuito a renderla ancora più affascinante.
Gli elementi di maggiore interesse risiedono nell’armonia tipografica dello specchio di stampa, nel raffinato corredo illustrativo, nel seducente ermetismo linguistico e delle ricche ed elaborate simbologie.
In Italia, il libro di Colonna non ha goduto di particolare successo: ristampato nel 1545 a Venezia, cadde nell’oblio fino al XVII/XVIII secolo.
In Francia la fortuna critica dell’Hypnerotomachia Poliphili è stata al contrario particolarmente vasta, poiché già dal 1546 si conoscono copie tradotte dell’opera: Hypnerotomachie, ou discours du songe de Poliphile, edizione curata da Jean Martin per Jacques Kerver e tradotta da Le Cal de Lenoncourt, mentre altre traduzioni e ristampe si sono succedute con regolarità fino al XIX secolo. La prima traduzione, nello specifico, avviene grazie ai dettami di Etienne Dolet, secondo cinque regole basilari date dallo stesso traduttore. Jean Martin segue quasi certamente i pilastri di Dolet, ma anche la versione francese è avvolta da un alone di mistero che non permette di avere certezze assolute riguardo la provenienza. Nel 1600 esce la seconda edizione francese della Songe du Poliphile: curata da Béroalde de Verville per l’editore parigino Matthieu Guillemot, questa versione è maggiormente esoterica rispetto alla prima, oltre che estremamente cabalistica: il frontespizio, ricco di simbologia, sembra essere un avvertimento rivolto a re Enrico IV° per evitarne l’omicidio. In questa edizione vengono mantenute le xilografie dal volume di Jean Martin. Dalla metà del XVI secolo le imitazioni delle xilografie si diffondono molto in Francia, soprattutto attraverso la tipografia di Lione di Guillaume Rouillé.
Una prima edizione inglese è documentata già nel 1592, l’Hypnerotomachia the Strife of Love in a Dreame con la traduzione di Richard Dallington, licenziata a Londra dallo stampatore Simon Waterson. In ambito inglese, l’Hypnerotomachia Poliphili tornerà in auge alla fine dell’Ottocento con una fitta serie di studi critici nel corso del secolo successivo. La prima edizione, in realtà, non viene tradotta completamente: Richard Dallington rende in lingua inglese circa 2/5 del testo, lasciando per molto tempo all’immaginazione del lettore britannico la conclusione del testo. Solo nel 1890 l’opera viene pubblicata totalmente in inglese.
Le xilografie, di autore sconosciuto anche in questo caso, vennero riadattate anche in Gran Bretagna basandosi sull’edizione aldina del 1499, ma risultarono delle reminiscenze degli originali più che una loro rilettura.
Maddalena Oldrizzi
Estetica della pagina
L’Hypnerotomachia Poliphili uscì dai torchi di Aldo Manuzio più di 500 anni fa, nel 1499. Esso appartiene dunque alla categoria degli incunaboli, ossia i libri stampati fino al 1501 con il torchio a caratteri mobili. Composto da 234 fogli numerati e da 172 splendide xilografie (incisioni su legno), rappresenta uno dei libri più famosi nella storia della tipografia mondiale e, quindi, tra i più ambiti dai bibliofili.
A un primo sguardo il libro ci appare stranamente familiare: un’impressione che è dovuta alla leggibilità del testo stampato. Infatti il carattere, la struttura della pagina e il modo in cui le parole sono disposte intorno alle figure seguono dei canoni tipografici a cui ormai siamo abituati. Eppure rispetto ad altri incunaboli (ad esempio la celebre Bibbia di Gutenberg), la sua modernità è addirittura disarmante. L’aspetto forse più evidente è l’assenza del carattere gotico – allora molto diffuso anche nei libri a stampa – mutuato dai codici manoscritti di epoca medievale. L’uso del carattere gotico aveva del resto consentito una transizione meno traumatica al libro stampato. Nell‘Hypnerotomachia esso invece scompare in favore di quello che è tuttora noto come Bembo, un carattere che prendeva a modello la scrittura degli umanisti italiani. Le sue linee armoniose ma essenziali seguivano le indicazioni di letterati e calligrafi famosi come Francesco Petrarca, Felice Feliciano, Poggio Bracciolini e Leon Battista Alberti, che intendevano ricreare la scrittura usata nell’antichità classica. Il carattere fu introdotto nel 1496 da Manuzio nel De Aetna di Pietro Bembo, da cui il nome, per essere perfezionato in occasione della stampa dell’Hypnerotomachia.
L’invenzione del carattere“romano” Aldino si deve a Nicholas Jenson, che lo sviluppò a partire dalla scrittura Antiqua, mentre le matrici dei singoli caratteri furono messe a punto da Francesco Biffi, un orafo bolognese che sarebbe diventato l’intagliatore favorito di Aldo. Nel carattere Bembo scomparvero i tratti di congiunzione tra le lettere che invece caratterizzavano la scrittura gotica, rendendolo più agevole alla lettura. Sotto l’aspetto tipografico l’Hypnerotomachia Poliphili rappresenta quindi, allo stesso tempo, un ritorno alla classicità romana e un’apertura notevole verso la modernità.
Un aspetto non secondario è costituito dalla struttura della pagina stampata, la cui estetica non è fine a se stessa, ma funzionale alla lettura del libro. Nell’Hypnerotomachia troviamo infatti una stretta integrazione fra il testo di riferimento l’immagine corrispondente, proponendo così una fusione semantica, oltre che visiva. Il tipografo ha inoltre giocato in modo molto originale con il testo, spesso disponendolo a forma di scudo o tazza, mentre non mancano casi in cui la giustificazione del testo segue le illustrazioni di contorno. Quanto appunto alle xilografie, esse sono talvolta disposte l’una accanto all’altra quasi a ottenere un effetto di racconto dinamico. In altre parole, l’Hypnerotomachia anticipa alcune soluzioni tecniche e visive che saranno adottate più avanti nel cinema o nei racconti a fumetti.
È quindi paradossale che un libro così leggibile, stampato con grande cura e ricco di soluzioni innovative sia in fin dei conti scritto in un linguaggio molto complesso. L’Hypnerotomachia Poliphili è infatti uno dei libri più illeggibili mai pubblicati. Le difficoltà partono dal titolo stesso, praticamente impronunciabile. La difficoltà aumenta sfogliando le pagine e cercando di decifrare il significato: oscuro, impenetrabile, a volte sconcertante, pieno di riferimenti reconditi e imbevuto di termini inconsueti, arcaici, reso ancor più complesso dalla prosa tortuosi, prolissi e pletorici. Il libro è uno strano miscuglio di lingue diverse – specialmente il volgare e il latino – che in alcuni casi richiedono le competenze di un esperto poliglotta. Una mescolanza che si osserva anche a livello tipografico, visto che sono impiegati caratteri greci, ebraici e, per la prima volta in un libro occidentale, anche caratteri arabi. Geroglifici egiziani e formule matematiche sembrano comporre infine degli enigmi, ma non costituiscono necessariamente dei rebus da risolvere.
Andrea Polati
L’autore delle xilografie: un altro mistero
Il libro illustrato diventa sempre più importante alla fine del XV° secolo, ricordando come massimi esempi il Liber Chronicarum di Schedel del 1493 e la serie dell’Apocalisse di Dürer del 1499.
Le edizioni di Aldo Manuzio in questi anni non lasciano invece ampio spazio alle illustrazioni, fatta eccezione per un’unica opera: l’Hypnerotomachia Poliphili. Considerato il volume illustrato per eccellenza del periodo Rinascimentale, l’Hypnerotomachia è anche uno degli esemplari più discussi della storia del libro in senso assoluto.
L’Hypnerotomachia è un romanzo allegorico in cui la parola scritta e l’immagine raffigurata si fondono in un unico grande linguaggio, amplificando l’elemento comunicativo: le immagini così eleganti e ieratiche, si sposano perfettamente con un registro linguistico non didascalico ma enigmatico. L’esemplare del 1499 è accompagnato sin dalla sua prima comparsa da ben 172 xilografie, che vanno a decorare il contenuto dell’opera stessa. Le ipotesi attributive delle immagini vedono una rosa ampia di nomi e collocazioni, ma quasi tutti gli studiosi tendono a concordare su un punto:
l’autore delle immagini deve aver lavorato a stretto contatto con Aldo Manuzio, non solo per le xilografie in sé, ma anche per gli spazi grafici, gli elementi tipografici, le cornici inserite.
Nonostante l’ipotesi presentata da Maurizio Calvesi, secondo cui l’autore delle immagini sarebbe di ambito romano (e nello specifico della cerchia di Pinturicchio), gli studiosi tendono invece ad identificare una netta matrice veneta nelle xilografie dell’Hypnerotomachia. Nello specifico, l’anonimo disegnatore dimostra di avere una naturalezza nella pratica che un incisore romano del tempo non poteva possedere, mentre nella zona lagunare e lombarda l’esperienza dei libri illustrati si era già diffusa ampiamente, elemento che giustificherebbe le maggiori capacità di un’artista del Nord Italia in questi anni. Tra gli intagliatori veneziani di fine ‘400 oggi conosciamo due nomi: Jacobus Argentoratensis, indicato dal monogramma “IA“, e Hieronymus de Sanctis; a questi due nomi si affiancano delle vere e proprie botteghe xilografiche, tra cui spicca quella del monogrammista “b“, fondamentale negli studi dell’Hypnerotomachia perché compare in due immagini dell’opera.
La mancanza di informazioni precise e il mistero che aleggia attorno all’opera non permettono di indicare un’unica personalità con certezza; sono invece emerse varie ipotesi, che qui ci limiteremo a presentare nelle accezioni considerate più veritiere e plausibili, che potenzialmente si possono accostare a quest’opera di inestimabile valore.
Benedetto Bordon
Benedetto Bordon nasce a Padova attorno al 1445-1450 e muore a Padova nel 1530. Le prime miniature si datano attorno al 1477, eseguite per il commerciante di libri Peter Ugelheimer, attivo in quel periodo a Venezia con la collaborazione dello stampatore Jenson: ne Decretum gratiani e il Digestum novum di Giustiniano, Benedetto si firma come “Benedictus Patavinus”. Fino alla prima metà degli anni ’80 lavora accanto a Girolamo da Cremona e al Maestro delle Sette Virtù (fig.5), sulle cui immagini Bordon modella il proprio linguaggio artistico, riprendendo temi iconografici tendenti all’antico e aperture stilistiche che guardano anche al mondo ferrarese. Nel 1480 Benedetto è certamente a Padova, come testimonia l’atto di matrimonio, dove rimarrà fino al 1492. Dopodiché si sposta a Venezia, dove passa il resto della sua vita e fonda ad una bottega propria.
Benedetto Bordon viene identificato dai più come l’autore delle immagini dell’Hypnerotomachia Poliphili, stampata da Aldo Manuzio nel 1499. Bordon e Manuzio potrebbero essere entrati in contatto tra 1494 e 1495 attraverso il Monastero di S. Nicolò della Lattuga, o S. Nicolò dei Frari: Bordon viene chiamato ad eseguire una serie di antifonari; uno dei dodici frati abitanti in loco era Urbano Bolzanio (1443-1524) o Urbanus Bellunensis, uno dei collaboratori di Aldo Manuzio. Si pensa che le prime opere greche pubblicate da Manuzio tra 1494/95 possano essere state decorate in parte da Bordon, in particolare l’Erotemata di Kostantinos Laskaris (fig.6), in cui le lettere iniziali dei capitoli richiamano la decorazione floreale di altre opere decorate da Benedetto.
La prima opera pubblicata da Bordon a Venezia di Luciano oggi si trova conservata in una copia a Vienna: presenta delle xilografie in stretta affinità con quelle dell’Hypnerotomachia. Le immagini della prima opera decorata da Bordon a Venezia, I Dialoghi di Luciano, presentano la stessa impostazione inventiva e stilistica del volume edito da Manuzio.
L’opera di Luciano in realtà sarebbe collegata alla stessa Hypnerotomachia anche da un punto di vista tematico: la versione in questione, infatti, contiene anche una traduzione latina dal titolo Luciano carmina in amorem; più volte si è notato un’influenza di tale opera in quella mandata a stampa da Aldo Manuzio. Il legame tra Manuzio e Bordon sarebbe inoltre esemplificato anche da elementi che vanno oltre le xilografie: lo stile ricco di ombre, il layout particolarmente bilanciato, nonché le lettere iniziali estremamente simili tra l’Hypnerotomachia e le opere greche stampate da Manuzio.
Andrea Mantegna
Andrea Mantegna nasce attorno al 1430 a Isola di Carturo, a nord di Padova. Si forma nella bottega di Francesco Squarcione, a Padova, dove dal suo maestro assimila l’amore per l’antichità. La sua arte raggiunge livelli ancor più alti in seguito, grazie ai contatti con Giovanni Bellini, di cui sposa la sorella Nicosia. Mantegna è conosciuto ai più per la carriera pittorica, ma ciò che qui viene preso in considerazione è il percorso grafico dell’artista veneto: si impone infatti agli occhi dei suoi contemporanei attraverso 35 incisioni. È probabile, dallo stile delle incisioni e dei disegni, che Mantegna abbia iniziato ad incidere attorno agli anni ’60 del ‘400, grazie anche all’influenza di Antonio Pollaiolo. I due avrebbero potuto conoscersi a Firenze nel 1466: entrambi si impegnano nella tecnica incisoria, forse ritenendo che possa essere più remunerativa del semplice disegno.
Mantegna ben presto assume un incisore professionista per copiare e rendere con tale tecnica i suoi disegni precedenti.
Ciò che fece l’artista veneto va però oltre le convenzioni lavorative: egli costringe il suo lavoratore, Simone di Ardizzoni, a sfruttare il metodo incisorio secondo le necessità di un pittore, come se utilizzasse una penna per incidere. I soggetti di Mantegna nella maggior parte dei casi sono mossi da un incredibile senso scultoreo, derivante dal suo amore per l’antichità così come era accaduto in precedenza con Donatello, ed è per questo che nelle sue incisioni troviamo corpi dal forte senso geometrico, di solito reso da torsioni del corpo stesso e delle braccia rispetto al busto. L’idea che le xilografie dell’Hypnerotomachia Poliphili si possano legare alla figura di Andrea Mantegna è da collegare all’impostazione di alcune delle immagini dell’opera. In particolare, la somiglianza più netta ed evidente esiste tra una xilografia identificata come Polifilo inginocchiato davanti al trono della regina Eleuteryllide, e un affresco sempre di Mantegna padovano, S. Giacomo davanti ad Erode.
L’impostazione mantegnesca delle xilografie è evidente, sia per la creazione spaziale, sia per l’ampio utilizzo di elementi architettonici, ma per la maggior parte degli studiosi questa tipologia può essere stata assorbita dal misterioso autore delle immagini senza che questi sia necessariamente il famoso artista veneto in prima persona.
Benedetto Montagna
Benedetto Cincani detto “il Montagna” nasce nel 1480 circa a Vicenza. Figlio del pittore Bartolomeo Montagna e di Paola Crescenzio, le prime notizie certe risalgono al 1504, quando diventa procuratore del padre: come lui, Benedetto diviene pittore, ma anche incisore. Collabora con Bartolomeo e alla sua morte, nel 1523, ne eredita la bottega a Vicenza.
Molto abile nel disegno, Benedetto Montagna creava scene molto austere e grandiose, con un taglio molto pesante e un disegno poco delicato.
Tra gli artisti veneti Montagna è forse quello maggiormente influenzato dalle opere di Albrecht Dürer ma, a differenza dell’artista tedesco, le sue prime stampe mancano di grazia. Il primo periodo di fase incisoria è caratterizzato da una tecnica basilare costituita da linee parallele e incrociate con intenzione plastica. Nelle stampe della fase successiva, invece, prende il sopravvento una forte sensibilità atmosferica, perdendo l’incisività del periodo precedente e seguendo una linea maggiormente pittorica.
Il legame che, secondo alcuni studiosi, si viene a creare tra Montagna e l’Hypnerotomachia è anche collegato ad ulteriori opere.
Nel 1509 a Venezia viene dato a stampa una versione delle Metamorfosi di Ovidio, di cui esistono sedici incisioni lignee in folio escluse dalla versione finale. Alcune di queste incisioni sarebbero da attribuire a Benedetto Montagna: secondo alcune analisi, tali immagini sarebbero incredibilmente somiglianti alle xilografie dell’Hypnerotomachia. A questa, che viene considerata una forte prova, si aggiunga che tra le incisioni dell’Hypnerotomachia troviamo due produzioni in cui compaiono le lettere “B.M.“, possibile firma di Benedetto Montagna.
L’ipotesi più veritiera, in base all’osservazione delle immagini, è che il monogrammista “ia“, autore della maggior parte delle immagini delle Metamorfosi stampate nel 1509 sia lo stesso autore della maggior parte delle xilografie dell’Hypnerotomachia: questo permette di comprendere che, potenzialmente, l’autore delle immagini dell’opera era sicuramente attivo in ambito veneziano all’inizio del XVI secolo; questi lavora ad altre opere, quindi l’Hypnerotomachia non si può considerare come un unicum nella sua produzione e che, probabilmente, era legato all’attività di una bottega.
Inoltre, si può infine aggiungere che il monogrammista “b” è probabile sia un collaboratore del primo monogrammista “ia”, avvalorando quindi l’idea dello sviluppo di un atelier.
Maddalena Oldrizzi
Di mano in mano: Dal Cinquecento ad oggi
L’esemplare dell’Hypnerotomachia Poliphili esposto in mostra vanta certamente un pedegree di tutto rispetto. La prima significativa attestazione di possesso del volume è rappresentata da una serie di iscrizioni a penna apposte ai margini di alcune pagine del libro. Si tratta, in particolare, di brevi appunti che riassumono il contenuto degli episodi narrati a fianco. L’autore è un anonimo lettore italiano del Cinquecento, al quale forse si deve anche la bella legatura in piena pergamena con cui è confezionato il libro.
Una serie di interessanti ex-libris riportati sul contropiatto anteriore si legano ai collezionisti che hanno voluto orgogliosamente associare i loro nomi a quello del prezioso incunabolo. Il primo che si conosca è nientemeno che David Garrick (1717-1779), il più importante attore inglese del Settecento, oltre che drammaturgo, poeta e impresario teatrale. Garrick, ritratto anche da Thomas Gainsborough, esercitò una grande influenza sul teatro inglese del XVIII secolo. Proprietario di una grande biblioteca, i suoi libri sono contrassegnati da un tipico ex-libris parlante, che rievoca il suo mestiere. Dal testamento di David (1779), sappiamo che la sua biblioteca, che comprendeva l’Hyperotomachia Polihili, passò in eredità a uno dei nipoti, il reverendo Carrington, primogenito del fratello George. Il suo ex-libris, incollato vicino a quello dello zio, è caratterizzato da un più classico scudo araldico, che riporta le insegne della famiglia Garrick. Il reverendo Carrington morì prematuramente a 34 anni e i suoi libri furono messi all’asta il 6 giugno 1787.
Da quel momento non si hanno più notizie del libro di Manuzio, finché dopo un secolo esso ricomparve nella biblioteca dell’inglese George Dunn (1865-1912) di Woolley Hall vicino a Maidenhead, nel Berkshire, come registra puntualmente il suo elegante ex-libris. Bibliofilo, appassionato di paleografia e degli albori della stampa, durante la sua vita formò una formidabile biblioteca in Woolley Hall, che comprendeva antichi testi giuridici inglesi, manoscritti medievali e incunaboli, tra cui appunto l’esemplare in mostra dell’Hypnerotomachia. La sua passione per i libri comprendeva anche le legature, che fu uno dei primi a studiare e a conservarle.
Dopo la scomparsa di Gerge Dunn, avvenuta nel 1912, la sua biblioteca fu smembrata per essere poi venduta all’asta a Sotheby’s, che tra il 1913 e il 1917 realizzò più di 30 mila sterline. Fu forse in quell’occasione che il libro passò nelle mani di Estelle Doheny (1875-1958), una delle prime collezioniste di libri degli Stati Uniti d’America. Di umili origini, il suo matrimonio con il ricco magnate Edward L. Doheny le consentì di accedere a enormi risorse economiche, che impiegò in opere di filantropia a Los Angeles e nel collezionismo librario, attività che le permise di formare una celebre biblioteca. Un glaucoma, che causò a Mrs. Doheny la perdita della vista, la portò a fondare il Doheny Eye Institute, uno dei più importanti centri di ricerca e di cura al mondo delle malattie della vista. Come bibliofila, ella dimostrò un interesse particolare per la Bibbia, di cui possedette la rarissima edizione stampata da Gutemberg tra 1453 e 1455.
Nel 1987, a 25 anni dalla morte della proprietaria, una parte dei volumi di Mrs Doheny – tutti contraddistinti da un ex-libris ovale con scritte e filettature dorate – fu presentata da Christie’s, spuntando all’asta la notevole somma di 38 milioni di dollari. Il volume dell’Hyperotomachia giunse quindi nella mani di Corrado Mingardi, come dimostra il suo originale ex-libris. Storico bibliotecario di Busseto, Mingardi è uno dei maggiori esperti di Giuseppe Verdi, sul quale ha scritto diverse pubblicazioni. La sua passione per i libri lo ha portato a costituire una collezione libraria di grande valore, specializzata in edizioni antiche ma sopratutto in libri d’artista del XX secolo.
Andrea Polati