Palazzo Gambara
Sotto a un prospetto che appare armonico e unitario, si nascondono in realtà due fabbriche edificate in tempi diversi. La prima, che si sviluppa dall’angolo a mattina fino a circa due terzi dell’attuale estensione del palazzo, è il risultato di un restauro seicentesco che la famiglia Maggi operò su un precedente edificio del Cinquecento;la seconda, fu innalzata a partire dal 1730 per volere di Scipione Gambara (dopo il cambio di proprietà avvenuto nel 1655) e conclusa dai suoi discendenti solo diversi anni più tardi (Lechi 1977, p. 107).
Entrambi questi momenti sono ancora facilmente leggibili nel prospetto su via Gezio Calini: se nelle finestre del piano terreno (con bugne schiacciate che ricordano quelle di palazzo Martinengo Cesresco), sono rispettate le forme tipiche del tardo cinquecento bresciano, in quelle del secondo piano e nei due portali si riconosce invece il disegno dell’architetto Antonio Marchetti, coinvolto nella progettazione del palazzo da Eleonora Gambara, nipote di Scipione, e dal figlio Angelo Griffoni (Lechi 1977, p. 113).
In origine lo stabile presentava un unico corpo di fabbrica e, circondato da mura, un grande cortile interno. Tuttavia, tra il XIX e il XX secolo, al palazzo fu aggiunto il corpo di fabbrica a sera e una torre per le osservazioni astronomiche, spazi divenuti necessari dopo la trasformazione dell’edificio in seminario vescovile verso la metà dell’Ottocento (Lechi 1977, p.113).
Attraverso il grande scalone centrale, dipinto da Saverio Gandini con un grandioso trompe l’oeil che occupa l’intera volta, si giunge al piano nobile e, voltando a sinistra, alla parte più antica del palazzo che ospita il grande salone d’onore (sala Morstabilini), decorato da Ludovico Bracchi nella seconda metà del Seicento. A sera dello scalone, invece, si estende la parte settecentesca dell’edificio, all’interno della quale si trovano due sale poste una dirimpetto all’altra, che nel soffitto presentano decorazioni architettoniche di gusto tardo barocco (sala Maggi) e neoclassico (sala Gambara). Continuando verso ovest si giunge a una sala con sei porte dipinte e, infine, agli ultimi due ambienti del palazzo: il primo, posto verso il cortile, ospita nel soffitto le raffigurazioni di Minerva, Giunone, Venere e Cupido, mentre l’altro, che guarda verso la strada, è ornato da una quadratura architettonica al cui interno sono illustrati quattro celebri amori mitologici (il ratto d’Europa, Perseo e Andromeda, Polifemo, Aci e Galatea ed Ercole e Deianira).
Edoardo Lo Cicero
Fausto Lechi, Le dimore bresciane in cinque secoli di storia, Vol. 6: Il Settecento e il primo Ottocento nella città, Edizioni di Storia Bresciana, 1977, pp. 106-113.
Edoardo Lo Cicero, Centro Pastorale Paolo VI, già palazzo Gambara, in Stefania Cretella (a cura di), Miti e altre storie. La grande decorazione a Brescia. 1680-1830, Grafo, Brescia 2020, pp. 49-50.