Palazzo Monti, ora Martin

L’edificio fu costruito dalla nobile famiglia Monti a partire dagli anni sessanta del Cinquecento su una preesistente abitazione quattrocentesca. La sobria facciata principale è caratterizzata da due fasce marcapiano fortemente aggettanti sulle quali si innestano direttamente le cinque finestre. Al piano terreno i cantonali e il portale d’ingresso si distinguono per la presenza di alcuni inserti in bugnato che creano un forte contrasto con la superficie quasi completamente liscia. Stando a quanto riportato da Guerrini, il committente della fabbrica Mons. Gerolamo Monti nel suo testamento, oggi irreperibile, dispose la continuazione dei lavori “secondum designum sive plantam factam da D. Julio Todeschini architecto” (Lechi, 1974, p. 341). Studi recenti tendono a non attribuire la totale paternità del progetto a Todeschini (Margutti, 2016, pp. 300-301): nonostante il portale d’ingresso possa riportare alla mente, seppur in forma meno slanciata ed elegante, altri disegni dell’architetto realizzati per il Palazzo dei Provveditori di Desenzano del Garda, l’impianto dell’edificio sembra appartenere alla tradizione architettonica romana. Risulta pertanto più ragionevole riconoscere in Todeschini l’interprete di un progetto giunto da Roma in seguito ad un soggiorno del cardinale Monti.

Superato il portale d’accesso si accede ad un profondo androne che immette in un porticato a quattro campate su colonne doriche affacciato su una corte, arricchito sul lato nord da una fontana con mascherone. La scenografica prospettiva termina con un giardino cintato grande quanto la corte interna.

Nadia Giori

Palazzo Duranti, ora Bettini

Il palazzo, ricavato dall’unione di due precedenti abitazioni acquistate fra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento dalla famiglia Duranti, presenta una facciata simmetrica estremamente sobria ed elegante. Al centro è collocato un semplice portale ad arco inserito in una cornice lineare che ne segue la forma, fatta eccezione per due brevi segmenti concavi posti poco al di sopra dell’innesto dell’arco a tutto sesto e per la mensola inserita nell’arco in corrispondenza della chiave di volta. Non sono presenti particolari ornati, le uniche linee che animano una facciata pressoché uniforme sono le lievi sagomature barocche presenti nella parte superiore delle finestre, più accentuate nel livello intermedio.
La firma di un architetto importante alla quale il Lechi fa riferimento potrebbe essere riconducibile a Giovan Battista Marchetti, il cui stile è caratterizzato da una sobrietà solenne tipica della declinazione bresciana del rococò. Ad avvalorare l’ipotesi, secondo Lechi, l’apertura sul cortile con colonne opposte alle lesene, tipica dell’architetto bresciano (Lechi, 1977, 275).
L’apparato decorativo, realizzato probabilmente entro l’ultimo decennio del Settecento, interessa sia il piano terreno, sia il piano nobile ed è caratterizzato dalla convivenza dello stile barocchetto lombardo con esempi di gusto neoclassico.

Nadia Giori

Villa Fenaroli

Le storia della costruzione di villa Fenaroli è strettamente legata alle vicende della famiglia Avogadro (Marubbi, 2000, p. 73), che nel corso del XVII secolo acquistò diversi edifici e terreni attigui, ampliando notevolmente la proprietà cinquecentesca. Nel 1715, alla morte di Scipione Avogadro, i figli si occuparono della ristrutturazione dell’edificio grazie all’intervento dell’architetto Giovan Battista Marchetti e in seguito del figlio Antonio, che diedero alla villa l’aspetto maestoso che ancora oggi la contraddistingue (Zani 1985, p. 112-113). Nel 1747 infine la villa fu acquisita da Paola e Bartolomeo Fenaroli. Attualmente il complesso Villa Fenaroli Palace Hotel, di proprietà privata, è adibito all’organizzazione di eventi e a sede espositiva.
L’attuale pianta a ferro di cavallo deriva dal rimaneggiamento del primo impianto a L della villa, riscontrabile fino al 1731 nelle descrizioni storiche del complesso (Zani 1985, p. 112) e totalmente aderente alle tendenze naturalistiche settecentesche, che miravano a intrecciare gli spazi interni alla dimensione naturale del paesaggio. L’accesso alla villa si trova a ridosso del ponte realizzato da Antonio Marchetti sul Naviglio dove quattro pilastri in marmo di Botticino, sormontati da vasi marmorei di gusto barocco (Cappelletto 1958, p. 58), immettono allo spazio occupato nel corso dell’Ottocento dal giardino romantico e frutto di una rielaborazione dell’originario giardino all’italiana (Marubbio 2000, p. 73), di cui si conserva ancora il piccolo padiglione marmoreo denominato uccelliera (Cappelletto 1958, p. 58).
La sapiente costruzione prospettica mette inoltre in relazione le linee orizzontali del corpo di fabbrica con la dimensione ascendente e verticale della scalinata che si inerpica sulla collina alle spalle del complesso, fino a giungere al tempietto monoptero dedicato a Eros.
La parte centrale della villa è dominata dallo scalone a doppia rampa aggettante con una parete di fondo che riprende il motivo a bugnato dei pilastri in entrata e del porticato, creando un raffinato contrasto tra le superfici lisce e quelle più rustiche. Il frontone classico soprastante, decorato con un’aquila in pietra, armi e lingue di fuoco, slancia la statua del dio Vertumno, che si staglia dinnanzi all’attico, mero elemento decorativo, sulla cui balaustra svettano le sculture settecentesche di Flora e Pomona e due coppie di panoplie e vasi marmorei.
Per quanto riguarda le decorazioni scultoree volute dall’architetto, è reso noto da alcune fotografie di inizio Novecento che le balaustre dello scalone erano ornate con altre dieci statue in pietra di Viggiù; tali sculture si trovano oggi nella galleria della villa situata al piano terreno verso occidente e rappresentano le stagioni, due personificazioni delle arti, la Musica e la Danza, e quattro divinità, Apollo, Giove, Marte e Giunone.
Le tre finestre che sovrastano lo scalone sono munite di una balaustrina marmorea e sormontate da piccoli timpani, triangolari sui lati e curvilineo al centro; quelle laterali, che si susseguono ritmicamente su entrambe le ali, presentano anch’esse l’inserimento della balaustra ma sono sfornite di timpano, a eccezione delle due che chiudono la facciata – con timpano curvilineo – che permettono di accedere alle terrazze, a loro volta situate sopra i due lunghi porticati al piano terra. Adiacente all’ala orientale si trova una serra di marmo bianco con funzione di grotta, che presenta portefinestre ogivali e una trabeazione decorata con motivi trilobati. Il tufo ricopre completamente l’interno del padiglione e crea un effetto scenografico che culmina nella fontana situata frontalmente rispetto alla porta d’ingresso. All’ala occidentale è stata addossata, negli anni quaranta dell’Ottocento, una serra identica e simmetrica. La facciata verso via Scalabrini presenta una parte centrale arretrata rispetto al resto della struttura, che assume dunque una forma leggermente concava. Gli ornamenti delle diciassette finestre del piano terra, scandite da doppie lesene di ordine gigante, sono caratterizzati da elementi a bugnato, che richiamano il portale centrale seicentesco.
Attualmente l’edificio conserva solo una esigua parte della decorazione originaria e presenta due stanze decorate con motivi mitologici al piano terreno, riferibili alla fine del Cinquecento, e un salone d’onore al piano nobile, di chiara fattura settecentesca, probabilmente rimaneggiato in epoca successiva.
Il piano terra si articola in una lunga galleria con volta a crociera adiacente a un’infilata di salette secondarie, fatte affrescare verosimilmente da Scipione Avogadro tra la fine del Cinquecento e tra cui spiccano la piccola stanza con il Giudizio di Paride, e quella con Atena inscritta in un oculo centrale.
All’incrocio della galleria con l’ala orientale si trova lo scalone a due rampe che permette di accedere al piano superiore grazie a tre porte situate sull’ampio pianerottolo che immettono rispettivamente, a destra, al lungo corridoio che ospita le stanze della struttura alberghiera e, a sinistra, alle sale settecentesche e alla terrazza esterna.

Giulia Adami

Palazzo Balucanti, oggi sede del Liceo Arnaldo

La costruzione del palazzo fu promossa da Giulio Provaglio e portata a termine dai suoi eredi alla fine del Seicento, poco prima della vendita dell’intero edificio alla famiglia Poncarli, avvenuta agli albori del secolo seguente. Il palazzo passò in seguito ai conti Cigola che vendettero l’immobile a Giacinto Balucanti, in occasione del matrimonio del figlio Tomaso con la contessina Marianna Cigola, ragione che spinse il nuovo proprietario a investire in una grande opera di ristrutturazione e di decorazione degli interni del complesso (Lechi 1974, pp. 88-89).
La facciata del palazzo presenta una superficie grezza che permette, ancora oggi, di intravedere i materiali di costruzione originali e cela una struttura a ferro di cavallo con un ampio cortile centrale su cui affacciano i tre lati interni dell’edificio (Lechi 1974, p. 84). Il complesso si articola su due livelli caratterizzati, al pianterreno, da sei finestre quadrate con cornice lineare, suddivise dal portone centrale in due gruppi simmetrici, e da sette aperture più ampie al piano nobile, con una cornice semplice e una trabeazione soprastante. In corrispondenza della zoccolatura dell’edificio, si susseguono inoltre sei finestrelle ammezzate, che permettono l’illuminazione naturale delle stanze del seminterrato. Il portale, dalle forme seicentesche, presenta due lesene laterali che terminano in mezzi telamoni, i quali sorreggono la balconata soprastante.
Lasciandosi il portone d’ingresso alle spalle, si accede al porticato che circonda l’arioso cortile centrale, che presenta cinque archi a tutto sesto sul lato lungo, parallelo a corso Magenta, e quattro campate per parte nei lati brevi; la struttura è stata realizzata secondo un impianto a ferro di cavallo e, in corrispondenza dell’angolo sinistro, si trova lo scalone che conduce al piano superiore, all’incrocio dei lati del porticato.
Al piano terra, in corrispondenza del lato che affaccia su Corso Magenta, si trovano quattro sale, fregiate con semplici decorazioni architettoniche dipinte e ornamentali pitture fitomorfe mentre, al piano nobile, a cui è possibile accedere mediante le due rampe di scale situate alle spalle delle stanze d’angolo dell’edificio, si denota un’infilata di stanze, affacciate sul corso, decorate secondo un gusto marcatamente neoclassico. Tra queste spiccano, per le raffinate decorazioni pittoriche, la sala dei tondi, la sala dei personaggi illustri, la sala di Enea e Didone, la sala della Sapienza e l’Alcova. Nella zona affacciata sul cortile interno si trovano invece la Galleria, la sala delle crociere e, di raccordo tra il lato lungo e l’ala destra, la sala circolare. Nelle due ali laterali dell’edificio sono situate altre sale secondarie e spazi di disimpegno, attualmente dedicati agli spazi didattici e amministrati del Liceo Arnaldo.

Giulia Adami

Palazzo Barboglio

L’edificio, eretto nel tardo Settecento su progetto di Giovanni Donegani (Lechi 1977, p. 149), presenta una severa facciata sviluppata su tre piani: l’unico elemento decorativo è costituito dalla balconata marmorea centrale sotto la quale si inserisce il portale, incorniciato da due lesene. Varcando l’ingresso si giunge nell’androne, dove si nota la cancellata neoclassica su cui spiccano le iniziali E.B., che indicherebbero l’ipotetico committente dell’edificio, il giurista Emanuele Barboglio (Fe d’Ostiani 1971, p. 232). La pianta si caratterizza per la forma trapezoidale asimmetrica, a causa dell’impianto urbano circostante che evidentemente ha costretto l’architetto a unire i corpi di fabbrica in modo originale e intelligente: l’innesto delle differenti parti, infatti, si basa su un effetto a cannocchiale, che prevede l’apertura prospettica, a partire dal portale, di uno spazio dopo l’altro. L’assetto attuale si deve all’intervento di Rodolfo Vantini, che nel 1832 rinnova gli ambienti privati del piano nobile; nonostante l’architetto abbia annotato nei propri diari un “prospetto di Casa Barboglio”, la struttura attuale della facciata non presenta alcun elemento vantiniano (Rapaggi 2011, p. 145).

Tra gli ambienti del pian terreno spicca una saletta dall’originale impianto iconografico raffigurante il Trionfo dell’Astronomia e delle Virtù morali.

Al piano nobile si trova il salone, cui si giunge dallo scalone d’onore, una struttura non particolarmente decorata.

A partire dal salone si sviluppa un’enfilade di sale neoclassiche, realizzate nei primi anni del XIX secolo.

 

Maddalena Oldrizzi

Palazzo Maggi, ora Ambrosi

La costruzione del palazzo fu promossa da Onofrio Maggi nel 1540, quando rilevò la quota della proprietà appartenente ai cugini, Adorno e Carlo, al fine di ristrutturare l’edificio secondo un gusto decorativo aggiornato e contemporaneo. Del nuovo progetto fu incaricato l’architetto Lodovico Beretta (Lechi 1974, p. 32) che, secondo quanto riportato dalla data incisa nell’intonaco in corrispondenza del sotto gronda della facciata, lavorò al nuovo riassetto intorno al 1554; di poco distante è invece l’incisione che riporta la data 1827, afferente a un successivo intervento di restauro del complesso.
La facciata, che rispecchia verosimilmente il disegno originale di Beretta (Lechi 1974, p. 32), si presenta sviluppata in senso orizzontale su due livelli ed è caratterizzata da un portale severo e lineare, ornato da due semicolonne scanalate ioniche che sostengono un architrave leggermente aggettante e incorniciano un arco a tutto sesto. Il senso di armonia e proporzione dell’edificio è dato dall’organizzazione ritmica delle otto grandi finestre al pianterreno, decorate con raffinate mensole a foglie d’acanto e delle tredici al piano nobile, semplici e simmetriche; le prime due finestre del primo ordine, a lato del portale, appaiono leggermente distanziate dall’ingresso al fine di non intaccare le pareti del porticato interno, che non necessitava di ulteriori aperture luminose. Chiudono la facciata una cornice a stucco sormontata da un fregio monocromo a girali vegetali, una cornice a ovuli e infine le mensole che sostengono la gronda, intervallata a sua volta da piccoli mascheroni che fungono da grondaia.
Le sale che mostrano raffinate decorazioni settecentesche sono situate al piano nobile dell’edificio, a cui si accede attraverso uno scalone a due rampe posto nel portico. Il salone d’onore fu fortemente rimaneggiato nella seconda metà del Novecento a causa dei bombardamenti della guerra, che distrussero il soffitto secentesco con travi in legno. Sul lato interno dell’edificio si trovano invece quattro stanze decorate da alcuni dei pittori più noti della scena artistica bresciana di metà Settcento, tra cui spiccano le realizzazioni di Giuseppe Manfredini e Giuseppe Teosa.
Il portone immette nel portico a campate architravate sostenute da colonne e semicolonne ioniche e con i volti a cassettoni in legno e si apre sul cortile su cui si affacciano le finestre, sormontate da un fregio monocromo con stemmi e una tipica altana bresciana, detta anche “baltresca”, una terrazza di origine medievale che, nelle case degli artigiani, era anticamente destinata all’essicazione dei tessuti.
Dal portico si accede, attraverso uno scalone a due rampe, al salone principale del palazzo, le cui travi in legno del XVI secolo furono distrutte dai bombardamenti del 1944; sul lato opposto una scala singola immette alle altre quattro sale interne, che si sviluppano nell’ala rivolta verso la strada e furono decorate nel primo Ottocento da alcuni dei pittori bresciani più in voga all’epoca.

Giulia Adami

Palazzo Brognoli, ora Bonera

Le notizie riguardanti il primo nucleo abitativo del palazzo risalgono agli anni Settanta del Quattrocento, quando l’edificio era abitato dalla famiglia Fisogni che, secondo i documenti, risiedeva a Brescia dalla metà del secolo, nei pressi della porta Matolfa. Nel 1612 il palazzo fu venduto da Francesco Fisogni ad Alfono Brognoli, discendente di una famiglia che, già dal XV secolo, aveva acquisito risalto sociale in città grazie ai profitti tratti dalla lavorazione del peltro (Lechi 1974, p. 72). Alfonso, che abbandonò in età giovanile la tradizione industriale familiare, comprò inizialmente una casa in contrada di Santa Maria della Pace per poi trasferirsi, pochi anni più tardi, nel palazzo acquistato da Fisogni. Alla fine del Settecento la famiglia Brognoli si scinse in due rami, uno dei quali rimase proprietario della casa fino alla seconda metà del Novecento, quando gli ultimi eredi vendettero l’immobile a Carlo Bonera. A quest’ultimo si devono gli attenti restauri novecenteschi che hanno permesso di riportare alla luce alcune importanti testimonianze decorative relative ai secoli precedenti.
La facciata si estende in orizzontale su tre piani di alzato ed è caratterizzata da uno zoccolo in pietra nella parte inferiore e da una semplice intonacatura soprastante, che non evidenzia particolari caratteri decorativi architettonici del fabbricato. Il portale, ornato con una cornice a bugnato rustico, divide idealmente il primo livello in due parti, caratterizzate da una serie di finestre quadrate con cornici lineari leggermente aggettanti. Il piano nobile presenta invece un’infilata continua di finestra ampie e rettangolari, ornate con una cornice lineare e una piccola mensola sporgente. L’ultimo livello riprende il tema del pianoterra, con la ripetizione delle medesime finestre quadrate con una cornice lapidea semplice.
Il portale d’accesso immette direttamente nell’atrio dell’edificio che corrisponde allo spazio occupato dal locale nella pianta cinquecentesca e che conserva alcuni elementi decorativi risalenti all’originale progetto; si tratta di un’esile colonna lapidea sovrastata da un capitello composto dagli stemmi della famiglia Fisogni e di alcuni lacerti di una pittura murale quattrocentesca a grisailles, che raffigura due uomini caratterizzati da un berretto “alla sforzesca” (Lechi 1976, p. 68), emersa nel corso dei restauri promossi da Bonera.
Nella zona sud del pianterreno è inoltre conservata una pittura raffigurante la Vergine con il bambino, attribuita, su base stilistica, a un seguace del Moretto.
Le sale decorate, poste al piano nobile dell’edificio, conservano ancora alcuni ornamenti quattrocenteschi riferibili all’antica struttura del palazzo, che si intrecciano a decorazioni di gusto settecentesco nella sala di Flora e in quella di Apollo.
Salendo la scala che dall’atrio conduce al primo piano, si incontra una prima stanza in cui, ancora una volta, si riconosce parte della struttura antica dell’edificio. L’ampio locale presenta infatti un soffitto ligneo con travi a vista che mette in evidenza gli elementi superstiti della struttura quattrocentesca, come i dipinti su piccole tavolette che rappresentano effigi di nobili uomini e dame; i cassettoni lignei del soffitto sono invece decorati con pitture geometriche riferibili probabilmente al primo Seicento. Le pitture che decorano le pareti laterali della sala mostrano lacerti di apparati architettonici dipinti nella parte mediana e un fregio, nell’area superiore, con paesaggi idealizzati racchiusi entro finte cornici marmoree, caratterizzate da elementi ornamentali riconducibili a una quadratura architettonica dipinta di gusto rococò.

Giulia Adami

Palazzo Fenaroli, ora sede del Segretariato Fraternità Opere di Papa Giovanni XXIII

L’edificio viene commissionato da Pietro e Francesco Fenaroli all’architetto Giovanni Donegani (Lechi 1977 p.219) alla fine del XVIII secolo, ed è oggi sede del Segretariato Fraternità Opere di Papa Giovanni XXIII. Il corpo centrale, sviluppato secondo una pianta ad U, affaccia su un ampio giardino, chiuso sul lato opposto da un ulteriore corpo di fabbrica eretto tra il Trecento e il Quattrocento, in seguito adibito a scuderia dalla famiglia Fenaroli. La facciata è scandita da una sequenza ritmica di finestre disposte su due livelli, divisi orizzontalmente da un marcapiano. Al centro si apre il portale d’ingresso, inquadrato da lesene scanalate. All’altezza del piano nobile si trova una balconata con tre grandi finestre, sormontate da panoplie d’armi a bassorilievo. Dall’ingresso si accede all’atrio che immette poi all’ampio giardino interno del palazzo, chiuso ai lati dalle ali nord e sud dell’edificio principale, e allo scalone d’onore, decorato dai simboli della Fama e della Nobiltà. Dallo scalone si accede al salone d’onore, decorato da Giuseppe Manfredini nel 1806; procedendo verso nord, si incontra la Sala delle rovine, decorata da Manfredini nel 1804 (Tanzi 1985 p.87) e restaurata da Livio Pasotti nel 1970.

Ad est si susseguono una serie di ambienti minori, mentre a nord è ubicato un vestibolo di passaggio caratterizzato da una ricca decorazione a trompe l’oeil a richiamare gli elementi dello scalone d’onore.

Maddalena Oldrizzi

Palazzo Salvadego Barboglio

Il palazzo venne costruito a fine Settecento per volontà di Apollonio, Marco Antonio e Francesco Ugoni sulle preesistenze della dimora in precedenza appartenuta alla famiglia Cigola. L’edificio, sviluppato secondo una pianta ad L, è caratterizzato da un’imponente facciata ritmata da una serie di finestrature organizzate secondo una scansione regolare in corrispondenza dei tre piani dell’edificio. Il prospetto si presenta inoltre suddiviso in senso orizzontale dal marcapiano lapideo posto all’altezza del mezzanino del piano nobile, che corre lungo l’intera superficie della facciata, congiungendosi alle estremità dell’edificio a due paraste lapidee, decorate a fasce orizzontali con spessore alternato. Al centro della facciata si apre il portale d’ingresso che immette nell’androne, costituito da un portico a tre campate, da cui si accede allo scalone d’onore che conduce, a sua volta, al corpo di fabbrica centrale.

L’ala ovest conserva una peculiare struttura ottocentesca, riformata dall’architetto Rodolfo Vantini attorno al 1850 al fine di ottenere un lussuoso appartamento privato (Costanza Fattori 1963, p. 14). Nell’ammezzato del corpo orientale sono conservati i soffitti lignei, decorati da travi quattrocentesche, staccati da alcune sale del pianterreno – all’angolo tra via Cattaneo e via Gambara – durante le fasi di ristrutturazione volute dalla famiglia Ugoni: parte del soffitto venne poi donato al senatore Ugo da Como per la sua residenza a Lonato del Garda.

Ad est dello scalone d’onore si articola un’infilata di sale decorate secondo un delicato gusto neoclassico. Tra questi una saletta divisa al proprio interno da una vetrata che crea un raffinato jardin d’hiver, decorato secondo il gusto neoclassico. Ad ovest dello scalone d’onore è situata l’alcova.

 

Maddalena Oldrizzi

Palazzo Suardi, ora Bruni Conter

Quasi certamente l’edifico sorge sul terreno ove in origine si trovava la torre medievale dei Calchera, che divenne, attorno al XVI secolo, la dimora della famiglia Maggi del ramo di Pompiano (Lechi 1977, p. 34).La proprietà passò poi nei primi anni del Seicento alla famiglia Suardi, che in seguito, per volere di Fabrizio e Francesco, fece ricostruire entro la prima metà del XVIII secolo il palazzo dall’architetto luganese Antonio Turbini, incaricato successivamente dai due fratelli anche della progettazione di villa “Labirinto” a Chiesanuova.
Tenendo conto del coinvolgimento nella campagna di decorazione dell’edificio del pittore Giacomo Antonio Boni (Zanotti 1739, pp. 232-233; Frisoni 2013, p. 37), è presumibile che i lavori di edificazione della fabbrica siano stati eseguiti durante il terzo decennio del Settecento, sebbenem sia Fausto Lechi,sia Camillo Boselli protendono per una datazione più tarda, compresa tra il 1730 e il 1740 (Boselli 1974, p. 15; Lechi 1977, p. 37).
Successivamente il palazzo, che ebbe anche l’onore di ospitare il poeta Ugo Foscolo durante ilsuo secondo soggiorno bresciano, fu acquistato nel 1885 da Francesco Conter, per passare poi in eredità alla famiglia Bruni. Durante la seconda Guerra Mondiale, l’edificio venne occupato, prima dall’Istituto poligrafico dello Stato e in seguito dal Comando della Polizia Politica, riportando danni negli affreschi e nei pavimenti (Lechi 1977, p. 39).

La pianta dell’edificio è organizzata in tre corpi di fabbrica disposti attorno a un cortile porticato dietro al quale si trova anche un giardino che, grazie al cannocchiale prospettico predisposto da Turbini, è visibile, attraverso atrio e cancellate, dall’entrata del palazzo su via Trieste. Affacciato su questa via, il prospetto principale dell’edificiofa emergere, specialmente nel portale e nel frontone curvilineo, il caratteristico disegno dell’architetto luganese, benché organizzato in maniera sobria e con pochi elementi.
Fa parte del palazzo, anche un piccolo giardino posto al di là della strada,ricavato da una porzione degli orti della famiglia Duranti (Lechi 1977, p. 37), che ospita al suo interno una statua di Nettuno scolpita da Alessandro Calegari (Fusari, in Sava 2012, p. 269, cat. 112).

Dal grande scalone a due rampe, dipinto da  Giacomo Antonio Boni con un medaglione raffigurante la Verità svelata dal Tempo, si giunge nella galleria che, entro una quadratura di Giuseppe Orsoni, ospitala scena mitologica di Selene ed Endimione, sempre opera del pittore bolognese. I medesimi artisti lavorarono ancheall’affresco conAurora che rapisce Cefalo, visibile nel solaio che conserva la decorazione superstite di quello che era un tempo il grande salone da ballo, e al soffitto con il Trionfo di Apollo presente nell’adiacente salone d’onore.Ascrivibili ai due artisti bolognesi, sono anche le ultime due sale a sera del corpo di fabbrica principale del palazzo.A un artista diverso, invece, sono da attribuire le due piccole sale poste nel corpo di fabbrica a mattina del palazzo decorate, nei primi anni dell’Ottocento, con le raffigurazioni mitologiche diPsiche che scopre Amore ed Enea, Anchise e Acanio.La sala posta verso il cortile interno nell’ala est dell’edificio venne affrescata in una terza fase, forse da uno dei pittori coinvolti nella decorazione dell’appartamento vantiniano di palazzo Guanieri.

Edoardo Lo Cicero